Al Circolo dei Lettori di Torino l’incontro con uno dei più importanti scrittori viventi [...]
Autore: WhatsUp | Categoria: Cultura e Spettacoli | Voti: 1 - Commenti: 0
Fonte: http://www.blog-news.it/metapost/don-delillo-racconta-zero
di Rocco Bellantone
@RoccoBellantone
Lo Stato Islamico ha rivendicato la strage avvenuta in Pakistan nella notte tra lunedì 24 e martedì 25 ottobre in una scuola di polizia nella città di Quetta, capoluogo della provincia del Baluchistan, una delle più instabili del Paese. Nell’assalto, condotto da un commando composto da tre uomini armati di fucili e giubbotti esplosivi, sono morte almeno 61 persone, per la maggior parte cadetti, e circa altre 120 sono rimaste ferite. Due attentatori si sono fatti esplodere, mentre il terzo è stato ucciso dalle forze di sicurezza pakistane che hanno preso il controllo della situazione dopo oltre quattro ore di scontri a fuoco.
ISIS si è attribuito l’azione attraverso la propria agenzia di stampa Amaq, che ha diffuso sui suoi canali social le foto degli attentatori prima che i tre compissero il massacro. Non è la prima volta che miliziani del Califfato attaccano Quetta. Era già successo nell’agosto scorso, quando un attentatore si era fatto esplodere in un ospedale della città uccidendo oltre 80 persone.
Prima che fosse lo Stato Islamico a porre il proprio marchio su questa offensiva, nelle ultime ore le forze di sicurezza pakistane avevano puntato il dito su almeno altri due gruppi. Uno di questi è la fazione Al-Alimi di Lashkar-e-Jhangvi, formazione militante ritenuta affiliata ai talebani che in passato ha compiuto diversi attacchi settari in Pakistan soprattutto contro comunità della minoranza sciita. Secondo un alto funzionario della sicurezza pakistana, citato dal New York Times e rimasto anonimo, sarebbe stato lo Stato Islamico a “commissionare” a Lashkar-e-Jhangvi questo attentato con l’obiettivo di dare continuità al progetto che prevede la formazione di un emirato islamico del Khorasan, l’antico nome della provincia più orientale dell’impero persiano, che a oggi si estende dal nord-est dell’Iran al subcontinente indiano passando per Afghanistan, Pakistan, Uzbekistan, Turkmenistan e Tajikistan.
L’altro gruppo di cui si è molto parlato in riferimento ai fatti di Quetta è Tehreek-e-Taliban, guidato dal mullah Mansoor Dawood Hafsullah, stretto collaboratore di Baitullah Mehsud, membro di spicco e fondatore dei talebani pakistani ucciso da un drone statunitense nel 2009. Miliziani affiliati a questa formazione nel dicembre del 2014 hanno compiuto uno dei più terribili massacri avvenuti in Pakistan negli ultimi anni, quello nella scuola pubblica militare di Peshawar dove i morti furono 145, di cui 132 bambini.
In Pakistan non è insolito che più formazioni si contendano la rivendicazione di un attentato. Al netto delle piste su cui si sta indagando, la più concreta delle quali rimanda comunque a ISIS, ciò che è accaduto nella scuola di polizia di Quetta, finita già due volte nel mirino degli attacchi nel 2006 e nel 2008, dimostra come nel Paese siano estese e sparse in più punti le aree in cui il governo centrale del premier Nawaz Sharif e l’esercito guidato dal generale Raheel Sharif faticano a imporsi.
La provincia del Baluchistan, confinante con l’Afghanistan e l’Iran, è al centro di tensioni separatiste vecchie di decenni. A Quetta, in particolare, dai tempi del mullah Omar – storico leader dei talebani la cui morte è stata annunciata nel luglio del 2015 – ha sede il quartier generale dell’organizzazione. Secondo fonti di intelligence accreditate a Kuchlak, a nord di Quetta, risiederebbe il nuovo capo dei talebani, , mentre molti uomini di vertice del movimento vivrebbero nei pressi del campo profughi di Surkhab.
Negli ultimi anni il governo di Islamabad ha provato ad aumentare gli standard di sicurezza nel Baluchistan, principalmente per consentire la realizzazione di un ambizioso piano finanziato con un investimento di 46 miliardi di dollari dalla Cina che prevede la costruzione di una serie di infrastrutture strategiche per i commerci e i passaggi di forniture energetiche attraverso l’Asia Centrale. Ma finora gli sforzi non sono bastati per tutelare l’area da nuovi attacchi, e quelle forze di sicurezza su cui il governo di Islamabad punta per riappropriarsi del controllo del Paese continuano a essere oggetto di attacchi.
All’ombra dei fatti di Quetta, qualcuno ha provato ad agitare anche lo spauracchio delle ingerenze dei Paesi confinanti. Non solo l’Afghanistan, accusato dai vertici della provincia del Baluchistan di aver facilitato l’attacco in risposta alle ingerenze del servizio segreto pakistano ISI (Inter-Services Intelligence) negli affari di Kabul, ma anche la Russia, gli Stati dell’Asia Centrale limitrofi alla regione AF-PAK (il Movimento Islamico dell’Uzbekistan è solo uno dei gruppi di quest’area che ha giurato fedeltà a ISIS) e l’Iran. Soprattutto Teheran negli ultimi anni ha dovuto accogliere migliaia di sciiti in fuga dalle violenze in Afghanistan e Pakistan e adesso starebbe cercando di aumentare la propria influenza nei due Paesi per tamponare alla fonte l’emergenza.
All’ombra delle guerre in Siria e Iraq, è innegabile che il piano di Al Baghdadi di rafforzare la presenza del Califfato in Afghanistan e Pakistan, e dare così sostanza al progetto transnazionale che prevede la nascita di un emirato islamico del Khorasan, stia attraversando una fase di innegabile sviluppo. Per ISIS il terreno in questa vastissima area geografica non è generalmente fertile. I talebani, che in passato hanno accettato di convivere con Al Qaeda per opportunismo economico, hanno opposto resistenza da subito all’arrivo di ISIS.
Finora l’esistenza di cellule di ISIS in Afghanistan era stata confermata esclusivamente nelle regioni montuose della provincia orientale di Nangarhar, soprattutto nel distretto di Haska Mina, (chiamato anche Deh Bala), nei pressi di Tirah Valley, località dell’area tribale pakistana del Khyber. Da qui per mesi ISIS ha diffuso messaggi di propaganda attraverso la radio Seda-i-Khilafat (“Voce del Califfato”) nelle lingue pashto, dari e uzbeko, prima che la sede dell’emittente venisse colpita e distrutta da un drone americano.
Nel distretto di Haska Mina la penetrazione di ISIS è stata guidata da un ex comandante talebano afghano, Abdul Khaliq, alias Umar. In seguito cinque comandanti del gruppo talebano pakistano Tehreek-e-Taliban Pakistan (TTP), tra cui il leader dell’area tribale Bajaur Hafiz Saeed Khan e il portavoce Shahidullah Shahid, hanno giurato fedeltà al Califfato. Hafiz Saeed Khan è stato scelto per dirigere la provincia del Khorasan (ISIS Wilayat Khorasan) che comprende aree al confine tra Pakistan e Afghanistan. La nomina a wali (governatore) gli è stata attribuita in persona dal portavoce del Califfato Abu Mohammad al-Adnani. Hafiz Saeed Khan in questi mesi è diventato famoso per la sua crudeltà (avrebbe fatto saltare in aria diversi prigionieri talebani) e per la capacità di attrarre nuove leve nella provincia di Nangarhar.
Qui ISIS dispone di campi di addestramento e può fare leva sul favore di una forte componente salafita avversa ai talebani. In quest’area i miliziani jihadisti hanno più volte attaccato i talebani puntando in più occasioni alla presa del capoluogo Jalalabad e al controllo della strada che conduce al valico di frontiera di Torkham al confine tra Afghanistan e Pakistan. Nell’aprile del 2015 ISIS Wilayat Khorasan ha rivendicato un attacco suicida nella città afghana di Jalalabad all’esterno di una banca, in cui sono morirono oltre 30 persone e altre 100 sono rimaste ferite. A dare l’annuncio di quell’attacco fu Shahidullah Shahid, il quale aveva abbandonato i talebani pakistani nel 2014 per passare al servizio dell’esercito del Califfato di Al Baghdadi. E adesso, con il massacro di Quetta, il Califfato è tornato a far sentire la propria presenza.
L'articolo Pakistan: ISIS rivendica la strage a Quetta sembra essere il primo su .
di Rocco Bellantone
@RoccoBellantone
Lo Stato Islamico ha rivendicato la strage avvenuta in Pakistan nella notte tra lunedì 24 e martedì 25 ottobre in una scuola di polizia nella città di Quetta, capoluogo della provincia del Baluchistan, una delle più instabili del Paese. Nell’assalto, condotto da un commando composto da tre uomini armati di fucili e giubbotti esplosivi, sono morte almeno 61 persone, per la maggior parte cadetti, e circa altre 120 sono rimaste ferite. Due attentatori si sono fatti esplodere, mentre il terzo è stato ucciso dalle forze di sicurezza pakistane che hanno preso il controllo della situazione dopo oltre quattro ore di scontri a fuoco.
ISIS si è attribuito l’azione attraverso la propria agenzia di stampa Amaq, che ha diffuso sui suoi canali social le foto degli attentatori prima che i tre compissero il massacro. Non è la prima volta che miliziani del Califfato attaccano Quetta. Era già successo nell’agosto scorso, quando un attentatore si era fatto esplodere in un ospedale della città uccidendo oltre 80 persone.
Prima che fosse lo Stato Islamico a porre il proprio marchio su questa offensiva, nelle ultime ore le forze di sicurezza pakistane avevano puntato il dito su almeno altri due gruppi. Uno di questi è la fazione Al-Alimi di Lashkar-e-Jhangvi, formazione militante ritenuta affiliata ai talebani che in passato ha compiuto diversi attacchi settari in Pakistan soprattutto contro comunità della minoranza sciita. Secondo un alto funzionario della sicurezza pakistana, citato dal New York Times e rimasto anonimo, sarebbe stato lo Stato Islamico a “commissionare” a Lashkar-e-Jhangvi questo attentato con l’obiettivo di dare continuità al progetto che prevede la formazione di un emirato islamico del Khorasan, l’antico nome della provincia più orientale dell’impero persiano, che a oggi si estende dal nord-est dell’Iran al subcontinente indiano passando per Afghanistan, Pakistan, Uzbekistan, Turkmenistan e Tajikistan.
L’altro gruppo di cui si è molto parlato in riferimento ai fatti di Quetta è Tehreek-e-Taliban, guidato dal mullah Mansoor Dawood Hafsullah, stretto collaboratore di Baitullah Mehsud, membro di spicco e fondatore dei talebani pakistani ucciso da un drone statunitense nel 2009. Miliziani affiliati a questa formazione nel dicembre del 2014 hanno compiuto uno dei più terribili massacri avvenuti in Pakistan negli ultimi anni, quello nella scuola pubblica militare di Peshawar dove i morti furono 145, di cui 132 bambini.
In Pakistan non è insolito che più formazioni si contendano la rivendicazione di un attentato. Al netto delle piste su cui si sta indagando, la più concreta delle quali rimanda comunque a ISIS, ciò che è accaduto nella scuola di polizia di Quetta, finita già due volte nel mirino degli attacchi nel 2006 e nel 2008, dimostra come nel Paese siano estese e sparse in più punti le aree in cui il governo centrale del premier Nawaz Sharif e l’esercito guidato dal generale Raheel Sharif faticano a imporsi.
La provincia del Baluchistan, confinante con l’Afghanistan e l’Iran, è al centro di tensioni separatiste vecchie di decenni. A Quetta, in particolare, dai tempi del mullah Omar – storico leader dei talebani la cui morte è stata annunciata nel luglio del 2015 – ha sede il quartier generale dell’organizzazione. Secondo fonti di intelligence accreditate a Kuchlak, a nord di Quetta, risiederebbe il nuovo capo dei talebani, , mentre molti uomini di vertice del movimento vivrebbero nei pressi del campo profughi di Surkhab.
Negli ultimi anni il governo di Islamabad ha provato ad aumentare gli standard di sicurezza nel Baluchistan, principalmente per consentire la realizzazione di un ambizioso piano finanziato con un investimento di 46 miliardi di dollari dalla Cina che prevede la costruzione di una serie di infrastrutture strategiche per i commerci e i passaggi di forniture energetiche attraverso l’Asia Centrale. Ma finora gli sforzi non sono bastati per tutelare l’area da nuovi attacchi, e quelle forze di sicurezza su cui il governo di Islamabad punta per riappropriarsi del controllo del Paese continuano a essere oggetto di attacchi.
All’ombra dei fatti di Quetta, qualcuno ha provato ad agitare anche lo spauracchio delle ingerenze dei Paesi confinanti. Non solo l’Afghanistan, accusato dai vertici della provincia del Baluchistan di aver facilitato l’attacco in risposta alle ingerenze del servizio segreto pakistano ISI (Inter-Services Intelligence) negli affari di Kabul, ma anche la Russia, gli Stati dell’Asia Centrale limitrofi alla regione AF-PAK (il Movimento Islamico dell’Uzbekistan è solo uno dei gruppi di quest’area che ha giurato fedeltà a ISIS) e l’Iran. Soprattutto Teheran negli ultimi anni ha dovuto accogliere migliaia di sciiti in fuga dalle violenze in Afghanistan e Pakistan e adesso starebbe cercando di aumentare la propria influenza nei due Paesi per tamponare alla fonte l’emergenza.
All’ombra delle guerre in Siria e Iraq, è innegabile che il piano di Al Baghdadi di rafforzare la presenza del Califfato in Afghanistan e Pakistan, e dare così sostanza al progetto transnazionale che prevede la nascita di un emirato islamico del Khorasan, stia attraversando una fase di innegabile sviluppo. Per ISIS il terreno in questa vastissima area geografica non è generalmente fertile. I talebani, che in passato hanno accettato di convivere con Al Qaeda per opportunismo economico, hanno opposto resistenza da subito all’arrivo di ISIS.
Finora l’esistenza di cellule di ISIS in Afghanistan era stata confermata esclusivamente nelle regioni montuose della provincia orientale di Nangarhar, soprattutto nel distretto di Haska Mina, (chiamato anche Deh Bala), nei pressi di Tirah Valley, località dell’area tribale pakistana del Khyber. Da qui per mesi ISIS ha diffuso messaggi di propaganda attraverso la radio Seda-i-Khilafat (“Voce del Califfato”) nelle lingue pashto, dari e uzbeko, prima che la sede dell’emittente venisse colpita e distrutta da un drone americano.
Nel distretto di Haska Mina la penetrazione di ISIS è stata guidata da un ex comandante talebano afghano, Abdul Khaliq, alias Umar. In seguito cinque comandanti del gruppo talebano pakistano Tehreek-e-Taliban Pakistan (TTP), tra cui il leader dell’area tribale Bajaur Hafiz Saeed Khan e il portavoce Shahidullah Shahid, hanno giurato fedeltà al Califfato. Hafiz Saeed Khan è stato scelto per dirigere la provincia del Khorasan (ISIS Wilayat Khorasan) che comprende aree al confine tra Pakistan e Afghanistan. La nomina a wali (governatore) gli è stata attribuita in persona dal portavoce del Califfato Abu Mohammad al-Adnani. Hafiz Saeed Khan in questi mesi è diventato famoso per la sua crudeltà (avrebbe fatto saltare in aria diversi prigionieri talebani) e per la capacità di attrarre nuove leve nella provincia di Nangarhar.
Qui ISIS dispone di campi di addestramento e può fare leva sul favore di una forte componente salafita avversa ai talebani. In quest’area i miliziani jihadisti hanno più volte attaccato i talebani puntando in più occasioni alla presa del capoluogo Jalalabad e al controllo della strada che conduce al valico di frontiera di Torkham al confine tra Afghanistan e Pakistan. Nell’aprile del 2015 ISIS Wilayat Khorasan ha rivendicato un attacco suicida nella città afghana di Jalalabad all’esterno di una banca, in cui sono morirono oltre 30 persone e altre 100 sono rimaste ferite. A dare l’annuncio di quell’attacco fu Shahidullah Shahid, il quale aveva abbandonato i talebani pakistani nel 2014 per passare al servizio dell’esercito del Califfato di Al Baghdadi. E adesso, con il massacro di Quetta, il Califfato è tornato a far sentire la propria presenza.
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di Alfredo Mantici
Siria, come prima, più di prima. Nella serata di sabato 22 ottobre, allo scadere dei tre giorni della tregua unilaterale decretata dai russi e dalle forze armate fedeli al governo di Damasco per consentire ai convogli delle Nazioni Unite di portare viveri e beni di prima necessità agli abitanti intrappolati nella parte di Aleppo ancora in mano ai ribelli, i combattimenti sono ripresi in tutta la parte meridionale della città.
Aleppo sta diventando il campo di battaglia decisivo nella guerra che ormai da sei anni oppone il regime di Bashar Al Assad a un variegato schieramento di ribelli, composto da milizie del Free Syrian Army (sostenute per anni dagli Stati Uniti e dalla Turchia) e da formazioni jihadiste che si riconoscono nell’estremismo islamico di Jabhat Fateh Al Sham (ex Jabhat Al Nusra) e dell’ISIS.
In campo, per accrescere la confusione, sono scese anche le forze dei curdi dell’YPG (Unità di Protezione del Popolo) che conducono un’offensiva indipendente contro i ribelli anti Assad e fronteggiano militarmente i reparti militari schierati dalla Turchia in Siria per combattere sia contro gli islamisti che contro gli irredentisti curdi.
La tregua umanitaria dichiarata da russi e lealisti, che mirava anche a consentire l’evacuazione dei civili dai quartieri assediati e dei miliziani che accettavano le condizioni di resa proposte dai militari di Assad, è scaduta senza che alcun convoglio umanitario delle Nazioni Unite riuscisse ad attraversare uno degli otto check point prescelti per il transito, che sono rimasti ininterrottamente sotto il fuoco dei ribelli durante le inutili settantadue ore di cessate il fuoco unilaterale.
Ormai è chiaro che le milizie che combattono contro il governo di Damasco non hanno alcun interesse a rinunciare allo scudo loro offerto dai circa 250.000 civili rimasti intrappolati nei quartieri sotto assedio. Domenica 23 ottobre, alle prime luci del mattino sono ripresi i raid aerei dei jet russi e siriani mentre gli osservatori locali hanno segnalato una ripresa dei combattimenti casa per casa lungo tutta la linea del fronte che corre, da oriente a occidente, nella porzione meridionale della città. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani i bombardamenti aerei russi e siriani hanno colpito anche aree periferiche di Aleppo nel nord e nell’ovest della città.
Neanche gli abitanti che vivono nei quartieri occupati finora dalle forze lealiste sono al momento al sicuro: i portavoce del Free Syrian Army hanno diffuso comunicati nei quali avvisano i civili di stare alla larga dai palazzi occupati dai militari di Damasco in quanto è in preparazione un’offensiva su larga scala.
Almeno 500 persone sono morte durante i combattimenti delle ultime settimane e 2.000 sono rimaste ferite nei bombardamenti aerei e per i colpi di artiglieria sparati dalle linee dei ribelli. Damasco sostiene che i raid non mirano a colpire obiettivi non militari, mentre i russi accusano i ribelli di usare spregiudicatamente i civili come scudi umani. “The war is hell”, “La guerra è un inferno”, disse il generale nordista Sherman durante le ultime fasi della guerra civile americana, e la battuta sembra tornata di attualità ad Aleppo, mentre gli americani sembrano sempre più decisi a disimpegnarsi dal teatro di guerra siriano, per concentrarsi sull’offensiva contro l’ISIS a Mosul, la seconda città irachena occupata dalle truppe del Califfato nell’estate del 2014.
Secondo fonti di intelligence della NATO, nelle prossime due settimane l’offensiva aerea russa ad Aleppo verrà intensificata grazie all’arrivo nelle acque siriane della portaerei russa Admiral Kuznetzov che, scortata da otto navi da guerra, ha lasciato il 19 ottobre il porto di Murmansk per fare rotta sul Mediterraneo. “Tutta la Siria deve essere liberata” ha dichiarato alla stampa il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, al momento della ripresa dei combattimenti dopo i tre giorni di tregua, aggiungendo che “in Siria oggi ci sono solo due opzioni: Assad insediato a Damasco o Al Nusra insediata a Damasco”.
Nelle stesse ore il Dipartimento di Stato americano diffondeva un comunicato nel quale si confermava che Washington rinunciava a combattere Jabhat Al Nusra (che fino al cambio di nome in Jabhat Fateh Al Sham era inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche) in quanto il gruppo aveva “cessato di essere un obiettivo degli Stati Uniti”.
In questa situazione sempre più confusa, i turchi continuano ad appoggiare i ribelli del Free Syrian Armyin una sorta di “guerra parallela” che li vede contrapposti ai curdi dell’YPG, alle forze di Damasco e all’ISIS che continua a occupare alcuni villaggi alla frontiera turco-siriana. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan il 23 ottobre durante una cerimonia pubblica nella città di Bursa ha dichiarato che le città di “Mosul e di Aleppo appartengono alla Turchia”, introducendo una nuova variante strategica nel già complicato ginepraio siriano.
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di Luciano Tirinnanzi
Mosul alla fine cadrà, se non altro per la sproporzione delle forze in campo che è di almeno dieci a uno in favore degli assedianti. Eppure, questo non risolverà i problemi dell’Iraq. Perché lo Stato Islamico è solo una faccia, sebbene la più feroce, dei molti problemi che attanagliano il paese dalla caduta di Saddam Hussein in poi, per non andare troppo indietro nel tempo. La questione confessionale pesa come un macigno sul futuro della convivenza pacifica del popolo iracheno, ma ancor più pesano le ambizioni di Turchia e Iran, e in secondo luogo del futuribile Kurdistan, che ne faranno il campo di battaglia delle loro pretese egemoniche.
Le pretese della Turchia
Ankara sta posizionando da mesi le sue truppe nei territori persi dallo Stato Islamico in ragione delle sue ambizioni geopolitiche, in funzione anti-curda e in chiave di conservazione dell’anima sunnita. “La Turchia non resterà a guardare come uno spettatore sulle questioni che minacciano la sua sicurezza” ha dichiarato in proposito Recep Tayyip Erdoga. Nei sogni imperialistici del presidente turco c’è, infatti, la precisa volontà di riprendere pezzo dopo pezzo il territorio che per circa cinquecento anni è stato dominio ottomano, a cominciare proprio da Mosul.
Tutto ebbe inizio nel 1923, quando il presidente turco Mustafa Kemal Ataturk inviò il suo ministro degli esteri, Mustafa Ismet Pasha, a Losanna per salvaguardare gli interessi della nascente repubblica dalle mire dei colonialisti europei. Due anni prima, il Trattato di Sèvres aveva smembrato l’impero ottomano e diviso quel territorio tra potenze alleate: la Siria sotto mandato francese, l’Iran e l’Iraq sotto mandato britannico. Ma la sorte di Mosul era già stata decisa a tavolino anni prima.
Come ricordato anche da Pierre Haski sul settimanale francese L’Obs, il 1 dicembre 1918 il capo del governo britannico David Lloyd George stava discutendo con il primo ministro Georges Clémenceau all’ambasciata francese a Londra. Il dialogo surreale si svolse all’incirca così: Clémenceau chiese a Lloyd George di cosa volesse parlare e questi rispose “Della Mesopotamia e della Palestina”. “Mi dica che cosa vuole”, domandò Clémenceau. “Voglio Mosul”, disse Lloyd George. “L’avrà”, rispose Clémenceau. E così fu.
La Turchia nazionalista di Ataturk avrebbe voluto un ruolo da pari a Losanna, ma si dovette accontentare dell’Anatolia e degli stretti di mare strategici. A Losanna, Ismet Pasha insisté che “Mosul è diventata più strettamente connessa con i porti del Mediterraneo che con quelli del Golfo Persico”, ma se ne tornò a casa lasciando in sospeso la questione dell’ex vilayat (provincia) ottomana di Mosul. E tale è rimasta sino a oggi, quando il Califfo Abu Bakr Al Baghdadi ha riacceso le speranze turche e dato l’occasione a Erdogan di mettere la parola fine a una controversia secolare.
Le pretese curde e iraniane sull’Iraq
Oggi come ieri, dal punto di vista di Ankara (ma anche di Baghdad), la posizione strategica di Mosul è cruciale per frenare le minacciose rivendicazioni indipendentiste che i curdi nutrono sin dalla fine dell’impero ottomano. Il trattato di Sèvres, infatti, ha frustrato anche le loro ambizioni, poiché gli era stata promessa un’indipendenza che però non si realizzò mai. Inoltre, la ricchezza petrolifera dell’area rappresenta un incentivo non da poco. Le pretese curde su Mosul sono perciò evidenti: la conquista della città anche per mano dei Peshmerga sarà usata come moneta di scambio al fine di ottenere un peso negoziale nella creazione di un futuro stato indipendente. Altrettanto evidenti quelle irachene: Baghdad può solo sperare di riuscire a ricomporre un paese in pezzi prima che la situazione attuale conduca alla separazione definitiva di intere regioni.
Meno evidenti, anzi piuttosto ambigue, sono invece le reali intenzioni dell’Iran, potenza regionale che da mesi si pone come risolutore per la ritirata dello Stato Islamico e la vittoria finale degli sciiti iracheni. Il governo di Baghdad oggi è guidato da Haider Al Abadi, che resiste a giorni alterni alle pressioni e agli interessi di Teheran, così come a quelli della componente sciita più oltranzista, rappresentata dall’imam Moqtad Al Sadr, che ha un ascendente e un potere reale sulla popolazione della capitale, se non altro per la resistenza offerta dai suoi uomini all’invasione americana del 2003.
Se Al Sadr preme sul governo iracheno per evitare qualsiasi interferenza straniera nella lotta di liberazione dallo Stato Islamico, la politica degli Ayatollah iraniani è orientata piuttosto a influenzare le scelte del governo e, in caso Al Abadi venga meno alle aspettative, sono pronti anche a sostituirlo: con Nouri Al Maliki, il premier predecessore, o con altri soggetti più inclini alle volontà espansionistiche di Teheran. I tentativi di “comprare” ministri e parlamentari sono ormai all’ordine del giorno.
L’Iran, insomma, accreditatosi come difensore degli interessi sciiti, intende ora presidiare l’Iraq con veri e propri agenti d’influenza, in modo da negoziare accordi sempre più vantaggiosi con Baghdad. Oltre che con le milizie irregolari. Alle porte di Mosul, infatti, oggi ci sono migliaia di volontari che rispondono agli ordini del generale iraniano Qassem Soleimani, leader delle Forze Al-Quds emanazione dell’ayatollah Ali Khamenei. Sinora, Baghdad ha intimato loro di non entrare in città e di restare nelle aree rurali, per evitare l’esplosione di faide interetniche. Che è proprio l’inevitabile futuro che attende l’Iraq, se la gestione del dopo Mosul non sarà stata organizzata per tempo. Cosa della quale è legittimo dubitare sin d’ora.
In fin dei conti, dunque, alla presa di Mosul potrebbe corrispondere la maledizione irachena che seguì all’invasione americana: vincere la guerra e perdere la pace.
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