Autore: HuffPo | Categoria: Cronaca | Voti: 1 - Commenti: 0
Fonte: http://www.blog-news.it/metapost/francesca-persi-innamorata-dell-uomo-sbagliato-coperto-nei-suoi-traffici-usata-come-prestanome
di Luciano Tirinnanzi
@luciotirinnanzi
“Quanto dev’essere intelligente un presidente degli Stati Uniti?” Questo curioso titolo è apparso su Scientificamerican.com il 26 maggio 2015 a firma di David Z. Hambrick, professore del Dipartimento di Psicologia della Michigan State University ed editorialista del New York Times. La domanda che si poneva il professore era precedente alla comparsa sulla scena di Donald Trump, prima cioè il candidato repubblicano demolisse ogni visione politically correct su come dovrebbe comportarsi un candidato che ambisce alla presidenza degli Stati Uniti e su quali valori dovrebbe incarnare. Ma è precedente anche alla vittoria alle primarie di Hillary Clinton, che da mesi insegue la poltrona della Casa Bianca puntando tutto sulla sua statura politica e sul suo profilo di donna fiera e democratica, in opposizione al “bullo newyorchese” (copyright Time magazine).
Hambrick nel suo articolo citava uno studio del 2006 dello psicologo dell’Università della California Davis Dean Keith Simonton, il quale aveva utilizzato un approccio di ricerca istoriometrico per stimare la correlazione tra Quoziente Intellettivo (QI) e successo presidenziale, indagando sui primi 42 presidenti degli Stati Uniti, da George Washington a George W. Bush.
Simonton affermava di aver scoperto che le stime del QI degli ex presidenti variavano “tra 118 – valore medio di un diplomato al college – e uno stratosferico 165, molto oltre il valore di soglia considerato per definire un genio”. I valori più bassi erano quelli di Ulysses S. Grant, Warren Harding e James Monroe. I tre più elevati quelli di John Quincy Adams, Thomas Jefferson e John F. Kennedy. Ma quel che colpiva dello studio era l’affermazione secondo cui “l’IQ è correlato positivamente con una misura della ‘statura presidenziale’ definita sulla base di diverse classifiche della capacità di leadership presidenziale, e la correlazione è molto diretta. Quanto più era intelligente il presidente, tanto più questa statura era elevata”. Insomma, il QI di un candidato sarebbe predittivo o quantomeno indicativo della sua possibile futura performance come statista.
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E veniamo quindi al dilemma odierno. Dopo due dibattiti in cui Trump e Clinton se le sono date di santa ragione, sappiamo che entrambi i candidati alla Casa Bianca non sembrano all’altezza del compito: l’uno per l’incredibile mole di “parole in libertà” che si è permesso, nonostante la carica che intende ricoprire richieda moderazione; l’altra per l’incredibile quantità di “azioni scorrette” che si è permessa come First Lady prima e Segretario di Stato poi, salvo poi rinnegarle con forza. È mancata a entrambi la capacità di dimostrare una superiorità morale e un’abilità comunicativa che portasse la discussione oltre il mero pettegolezzo teso solo a screditare l’avversario. Colpa forse del loro intelletto?
Nessuno dei due ha saputo approfittare degli scivoloni dell’altro, così come nessuno ha saputo posizionarsi laddove gli americani vorrebbero vedere collocato un presidente, e cioè a metà tra una figura carismatica e un eroe hollywoodiano. Abituati all’eloquio poderoso di Barack Obama, che ha portato la narrazione (se vogliamo la retorica) dell’America presente e futura a un livello kennediano, il secondo dibattito televisivo prima del voto dell’8 novembre ci ha riportato così in basso che è lecito nutrire seri dubbi sull’intelligenza politica di entrambi.
Se però dobbiamo attenerci agli schemi illustrati da Hambrick, scopriamo che uno dei due è nettamente superiore all’altro e potrebbe prevalere. Per quel poco che può valere questo gioco statistico, lo schema del professore regge se confrontiamo i Quozienti Intellettivi degli sfidanti con i vincitori delle scorse elezioni presidenziali: Bill Clinton, Quoziente Intellettivo di 137, divenne presidente battendo il suo avversario George H.W. Bush, fermo a un modesto 98. Suo figlio George W. Bush, QI pari a 125, nel 2000 sconfisse l’avversario Al Gore, che pure ne aveva uno superiore (134) ma nel 2004 recuperò con John Kerry, indietro di soli due punti a 123. Infine, Barack Obama, con un QI di 130 ha avuto la meglio sia sul repubblicano John McCain (QI 125) al primo mandato, sia su Mitt Romney (QI 122) al secondo.
Ma quando si scopre che il Quoziente Intellettivo di Hillary Clinton è pari a un ottimo 140, bisogna fermarsi a riflettere e guardarsi bene dal correre alla sala scommesse per puntare tutto sulla sua vittoria: il suo avversario repubblicano, Donald Trump, ha infatti un quoziente di ben 156 punti. Come la mettiamo adesso? Per fortuna loro, i sostenitori della Clinton possono trovare ancora conforto nelle parole del professor Hambrick, il quale aggiungeva che “il QI non è l’unico predittore del successo in questo lavoro. Sono in gioco anche molti altri fattori, tra cui l’esperienza, la personalità, la motivazione, le capacità relazionali e soprattutto la fortuna”. Infatti, “la Costituzione non prevede alcun test del QI e probabilmente non lo prevedrà mai”. E ci mancherebbe altro.
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di Rocco Bellantone
@RoccoBellantone
Dal gennaio del 2015 lo Stato Islamico ha perso il 28% dei territori conquistati in Siria e Iraq. A dirlo sono le ultime rilevazioni effettuate dall’Istituto IHS Conflict Monitor, secondo cui nei primi nove mesi del 2016 l’area in mano alle milizie del Califfo Abu Bakr Al Baghdadi è passata da un’estensione di 78mila kmq a 65,5mila kmq, una superficie equivalente alle dimensioni dello Sri Lanka.
Tuttavia, da luglio l’esercito di Al Baghdadi ha retto meglio il colpo perdendo “solo” 2.800 kmq. Un rallentamento che, secondo l’IHS, coinciderebbe con la riduzione dei raid aerei da parte della Russia. Prima dell’inizio dell’estate i caccia del Cremlino miravano a colpire postazioni del Califfato nel 26% dei casi, percentuale scesa al 17% tra luglio, agosto e settembre.
Alex Kokcharov, analista di questioni russe per IHS, ritiene che nella fattispecie del conflitto siriano la priorità di Mosca in questo momento sia quella di “fornire sostegno militare al governo di Bashar Assad” con l’obiettivo di trasformare la guerra civile siriana da un conflitto tra più fazioni a un unico conflitto tra il governo siriano da una parte e gruppi jihadisti – tra cui lo Stato Islamico – dall’altra. È un modo, ha dichiarato Kokcharov, “per ostacolare il sostegno che arriva alle opposizioni siriane da parte della comunità internazionale”.
Nonostante la diminuzione dei raid aerei russi, le perdite subite dal Califfato sono state comunque molto significative. I miliziani di Al Baghdadi sono stati respinti 10 km indietro rispetto al confine con la Turchia. In particolare, perdendo a inizio agosto il controllo della strategica città siriana di Manbij – conquistata dalle milizie curdo-arabe delle FDS (Forze Democratiche Siriane), sostenute in quest’area dai caccia americani – ISIS non può più controllare le vie di comunicazione che collegano la sua capitale in Siria, Raqqa, alla Turchia.
“Le perdite territoriali dello Stato Islamico dal mese di luglio – spiega Columb Strack, direttore dell’IHS – sono relativamente modeste su scala, ma senza precedenti sul piano dell’importanza strategica. Soprattutto la perdita del controllo delle rotte del contrabbando transfrontaliero con la Turchia sta limitando sensibilmente la capacità del gruppo di reclutare nuovi combattenti provenienti dall’estero”.
Anche in Iraq la situazione per ISIS si fa sempre più incerta. Nei mesi scorsi le forze regolari di Baghdad, con il sostegno degli USA e di milizie paramilitari sciite Hashed al-Shaabi (Forze di Mobilitazione Popolare) coordinate dall’Iran, hanno ripreso il controllo della base aerea strategica di Qayyarah, situata 60 km a sud rispetto a Mosul, capitale dello Stato Islamico in Iraq.
Il premier Haider Al Abadi ha annunciato che l’offensiva finale per riprendere la roccaforte jihadista inizierà a fine ottobre. Eppure, ISIS in Iraq anche nelle ultime settimane ha dimostrato di essere ancora in grado di reagire colpo su colpo agli attacchi subiti. Il Califfato ha infatti ripreso possesso della parte centrale del distretto di Sharqat, nella provincia di Salahuddin. Mentre è di ieri, domenica 9 ottobre, la notizia diffusa da Iraqi News secondo cui i miliziani jihadisti avrebbero iniziato da tempo a costruire sei linee di difesa per proteggere Mosul: quattro sul fianco sinistro e due sul fianco destro. In ogni linea di difesa sono stati posizionati decine di uomini armati, kamikaze pronti a farsi esplodere, trappole esplosive e veicoli imbotti di bombe.
(Grafici IHS Conflict Monitor/BBC)
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di Alfredo Mantici
Sono trascorsi 43 giorni da quando, il 19 settembre scorso, due tecnici italiani e un loro collega canadese sono stati rapiti da un gruppo di uomini armati a Ghat, nella parte sud-occidentale della Libia, ai confini con l’Algeria. I due nostri connazionali, Danilo Calonego e Bruno Cacace, lavoravano da molti anni in Libia ed erano impegnati per conto della Conicos di Mondovì (provincia di Cuneo) nei lavori di ammodernamento dell’aeroporto di Ghat. Del tecnico canadese sequestrato insieme a loro si conosce solo il nome di battesimo, Frank.
Secondo le autorità locali, responsabili del rapimento sarebbero stati dei predoni appartenenti alle bande armate che vivono di contrabbando di armi e di esseri umani a cavallo dei confini tra Libia e Algeria. Nella zona operano anche formazioni legate ad Al Qaeda e affiliate ad AQIM (Al Qaeda nel Maghreb Islamico). La più pericolosa di queste formazioni è quella comandata da Mokhtar Belmokhtar, un bandito da anni impegnato in traffici transfrontalieri (compreso il contrabbando di sigarette che gli ha fruttato il soprannome di “Mr. Marlboro”) che dal 2015 si è autonominato capo di Al Qaeda nell’Africa Occidentale.
La banda di Belmokthar è responsabile dell’assalto all’installazione petrolifera algerina di In Amenas compiuto nel gennaio del 2013 e conclusosi, dopo l’intervento delle forze armate algerine, con l’uccisione di 39 ostaggi e di 29 guerriglieri. Dopo questo episodio, apparentemente, Belmokhtar sarebbe tornato a dedicarsi ai suoi traffici tradizionali, senza prendere parte alla lotta che, nel resto della Libia, contrappone le milizie jihadiste alle forze schierate con il governo di Tripoli o con il generale Khalifa Haftar, il quale sostiene il parlamento di Tobruk.
Secondo una fonte delle forze di sicurezza algerine citata dal sito mediorientale Middle East Eyes, il rapimento dei due tecnici italiani e del loro collega canadese sarebbe opera di una banda mista di delinquenti comuni libici e algerini che opera alla frontiera sotto il comando di un algerino, Abdellah Belakahal. La stessa fonte dei servizi algerini ha dichiarato che, negli ultimi giorni, i rapitori avrebbero fatto giungere agli uomini dei servizi segreti italiani impegnati nella ricerca dei tecnici sequestrati la richiesta di un riscatto di quattro milioni di euro in cambio della liberazione dei tre ostaggi, minacciando, in caso di rifiuto, di “vendere gli ostaggi ad AQIM o a una cellula dello Stato Islamico”. I rapitori avrebbero chiesto anche la liberazione di due membri del loro gruppo armato, tra cui il fratello di Belakahal, da tempo in prigione per traffico di armi.
Un membro della municipalità di Ghat ha detto, come riportato sempre da Middle East Eyes, che nei negoziati per la liberazione dei tre tecnici sono attivamente impegnati come intermediari membri delle più potenti tribù locali e che i “negoziati sarebbero a buon punto e dovrebbero portare alla liberazione dei rapiti nei prossimi giorni”. Sia le autorità italiane che quelle canadesi hanno rifiutato di commentare la notizia della richiesta del riscatto, sottolineando “la delicatezza del momento”.
Le autorità canadesi, comunque, in tutte le dichiarazioni ufficiali rilasciate all’indomani del sequestro di Ghat, si sono ben guardate dall’affermare un rifiuto di principio netto ed esplicito riguardo a possibili trattative con i sequestratori. Mentre, d’altro canto, le autorità italiane sono note in tutto il Medio Oriente per l’atteggiamento di “disponibilità al dialogo” (vale a dire ad accettare di pagare un riscatto in cambio della liberazione di nostri connazionali) mostrato negli ultimi anni in analoghe vicende.
L’andamento apparentemente favorevole delle trattative per il rilascio dei due italiani e del loro collega canadese lascia immaginare che un accordo potrebbe essere raggiunto nei prossimi giorni. Sullo sfondo pesa però la minaccia della “vendita” dei tre stranieri ad AQIM, a Bemokthar o all’ISIS. Una minaccia che, se si realizzasse, porterebbe tutta la vicenda in alto mare.
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di Luciano Tirinnanzi
@luciotirinnanzi
Di una cosa si può essere certi riguardo a Donald Trump: il ragazzo d’oro del mattone sa come incassare i colpi. Dopo aver ricevuto un colpo bassissimo orchestrato nientemeno che dai Bush – sì, proprio la famiglia che ha partorito due presidenti repubblicani e che lo odia per come ha umiliato il terzo Bush, Jeb, alle primarie – ossia la pubblicazione di una video del 2005 in cui il tycoon si lancia in una serie di commenti grevi su come tratta (male!) le donne, l’intera America gli si è rivoltata contro.
Passino i Robert De Niro che dichiarano di voler “prendere a pugni in faccia quel maiale”, ma oggi anche il suo partito, il Grand Old Party repubblicano, gli ha girato le spalle per bocca dello speaker della Camera, Paul Ryan. Che tra i due non corresse buon sangue è cosa nota sin dal giugno 2015, quando Trump annunciò la sua candidatura. All’epoca, molti nel partito dell’elefantino risero – tra cui lo stesso Jeb Bush e certamente anche Paul Ryan – reputando che fosse solo il capriccio di un miliardario annoiato. Quanto si sbagliavano. Mentre giorno dopo giorno Donald Trump continuava a volare nei sondaggi e a sconfiggere uno a uno tutti i concorrenti delle primarie, Paul Ryan iniziava a disperarsi e a meditare il da farsi insieme ai vertici del partito repubblicano.
Ryan è un classico conservatore: nato nel 1970, è entrato alla Camera a soli 28 anni ed è stato rieletto per sei volte consecutive. Scelto come vicepresidente da Mitt Romney per le presidenziali del 2012, nell’ottobre 2015 è diventato il più giovane speaker della Camera dal 1869, grazie alla rinuncia di John Boehner. Ryan è stato il collante per raddrizzare le derive scissioniste del GOP seguite alla spaccatura intera promossa dal Tea Party (la destra repubblicana). Contrario alle leggi sull’aborto e ai matrimoni gay, Ryan cita San Tommaso d’Aquino ed è favorevole alla privatizzazione di Medicare. Ma soprattutto è un vero uomo dell’establishment: per questa ragione mal digerisce un parvenu della politica come Trump, i cui metodi e soprattutto la cui pretesa di scalare il partito sono considerate un atto sacrilego.
Del resto, anche Trump non lo digerisce e si era rifiutato persino di appoggiare la sua rielezione a speaker della Camera, salvo poi scendere a più miti consigli, su suggerimento di Mike Pence, il vicepresidente designato: “Non saremo d’accordo su tutto ma, come accade tra amici, non smetteremo mai di lavorare insieme per la vittoria” ha chiuso la questione il tycoon. In quell’occasione, Trump aveva glissato anche sull’appoggio alla rielezione di John McCain. Entrambi non gliel’hanno perdonato.
Paul Ryan non ha mai nascosto l’antipatia per Donald Trump. Ancora a metà maggio 2016, quando ormai il tycoon aveva in pugno la candidatura, la resistenza a un suo endorsement è stata tale che alle insistenze dei giornalisti ha risposto: “Non sono pronto in questo momento, non ci sono ancora. Spero e mi auguro di farlo”. Il suo appoggio è arrivato solo un mese dopo, con parole che sono suonate poco sincere: “Sono fiducioso che (Trump, ndr) ci aiuterà a trasformare le idee in agenda in leggi che aiutino a migliorare la vita delle persone. Ecco perché io voterò per lui questo autunno”.
Da quel momento in poi, i suoi commenti sono stati a dir poco sibillini. Uno su tutti, nel giorno dell’ufficializzazione della candidatura alla Convention Nazionale Repubblicana: “Solo con Donald Trump e Mike Pence abbiamo la migliore possibilità”. Ora, se questa frase appare innocua e scontata, in essa c’è invece il vero programma-ombra dei repubblicani che prevede, in caso di vittoria, di sfilare appena possibile la poltrona di presidente alla “scheggia impazzita” a mezzo impeachment, per favorire l’arrivo alla Casa Bianca proprio del vice di Trump, Mike Pence.
Pence è uomo dell’establishment e un fedele repubblicano non meno di Paul Ryan: eletto nel 2001, è rimasto al Congresso fino al gennaio 2013, quando è stato eletto Governatore dell’Indiana. Ma soprattutto è stato imposto a Donald Trump dal vertice del partito, mentre lui avrebbe preferito l’amico Chris Christie o l’ex speaker della Camera, Newt Gingrich.
Trump non conosceva il Governatore dell’Indiana, si saranno incontrati sì e no quattro o cinque volte prima delle primarie. Mike Pence si è avvicinato a lui solo dopo la vittoria in Indiana, dove “The Donald” si è imposto con 18 punti di vantaggio su Ted Cruz, che proprio quel giorno si è ritirato dalla corsa per le presidenziali (4 maggio 2016). Fino ad allora, Pence aveva sostenuto indefessamente Cruz e boicottato pesantemente il tycoon newyorchese.
Sulla scelta di Pence come vicepresidente ha pesato molto il parere di Paul Manafort, all’epoca spin doctor di Trump e già suggeritore dei due Bush e di John McCain. A metà agosto, però, Trump ha licenziato Manafort dalla guida del suo staff con queste parole: “Mi sentivo costretto in una scatola e controllato”. Il candidato repubblicano ha fiutato, tardivamente, la trappola imbastitagli dal partito.
Ciò detto, anche se i repubblicani boicottano Trump a mezzo stampa, lo fanno solo per salvare la faccia. Infatti, nelle urne voteranno comunque il loro candidato, semplicemente perché non si possono permettere di perdere le elezioni. In ballo non ci sono solo la poltrona di presidente e di vicepresidente, ma la rielezione del Congresso (oggi saldamente in mano repubblicana) e, soprattutto, l’elezione del nono giudice della Corte Suprema.
Per i repubblicani, perdere la presidenza significherebbe altri quattro anni senza controllo dell’esecutivo che, sommati agli otto di amministrazione Obama, fanno dodici anni lontani dalla Casa Bianca (che potrebbero diventare anche sedici). Un tempo troppo lungo da concedere ai democratici.
Per quanto riguarda il Congresso, la Camera si rinnova ogni due anni: quest’anno si vota per il ricambio del cinquanta per cento. Il Senato, invece, si rinnova ogni sei anni ma un terzo ogni due, come quest’anno. Il rischio di perdere il controllo del Congresso già nel 2016, perciò, è reale (senza contare che si rinnoverà anche un certo numero di Governatori).
Ma soprattutto, nel voto dell’8 novembre c’è in ballo la nomina dell’ultimo dei nove giudici della Corte Suprema, un organo che svolge un ruolo fondamentale in America, poiché con le proprie decisioni indirizza le politiche del Paese e fa giurisprudenza. In seguito alla morte del giudice conservatore Antonin Scalia dello scorso febbraio, la Corte Suprema oggi è spaccata a metà, con quattro democratici e quattro repubblicani. La loro nomina spetta al presidente degli Stati Uniti, previa conferma del Senato: la vittoria di Hillary Clinton alienerebbe un altro pezzo di potere dal controllo dei repubblicani, che si ritroverebbero così senza maggioranza alla Corte Suprema, un fatto che non si verifica dai tempi di Nixon, precisamente dal 1971. Barack Obama si è guardato bene dal nominare un giudice democratico, ben sapendo che il Senato attuale a guida repubblicana lo boccerebbe, e lascerà che sia il prossimo presidente a proporne la nomina. Poiché i giudici sono eletti a vita, in caso di sconfitta i repubblicani si ritroverebbero con una Corte Suprema democratica per almeno i prossimi venticinque anni.
Dunque, il dilemma repubblicano è in realtà un falso dilemma: se non vincerà Donald Trump, infatti, il GOP rischia di perdere in un solo colpo il controllo sul potere esecutivo, legislativo e giudiziario. E questo i repubblicani non possono permetterselo. Ecco perché Paul Ryan e gli altri repubblicani, nel segreto dell’urna si ritroveranno per mero calcolo politico a votare Donald Trump con una mano e a preparare un impeachment con l’altra. Per far fuori un presidente, come insegna la storia americana, c’è sempre tempo.
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di Luciano Tirinnanzi
@luciotirinnanzi
Potrà sembrare molto distante da noi, ma l’accordo di pace siglato in Colombia tra Rodrigo “Timochenko” Londono, leader delle FARC, il gruppo armato più longevo e violento dell’America Latina, e il presidente Juan Manuel Santos, insignito per questo del Nobel per la Pace, ha un significato storico mondiale.
Già, perché con la fine dell’embargo cubano e le dimissioni di Fidel Castro, con l’eclissarsi del chavismo in Latinoamerica e ora con la deposizione delle armi degli ultimi rivoluzionari marxisti-leninisti, le “Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia – esercito del popolo”, scompare definitivamente dalla mappa planetaria l’ultima bandiera di quell’ideologia comunista che ancora resisteva nella giungla sudamericana dopo un secolo e mezzo di vita.
Fatta eccezione per il maoismo nazionalista cinese e la devianza della dittatura nordcoreana, pur con tutti i dovuti distinguo oggi nessuna delle varie declinazioni politiche e applicazioni dottrinali della filosofia che fu di Karl Marx trova più spazio nella politica.
Le istituzioni, i partiti, i rivoluzionari e persino i nostalgici hanno via via diluito nel tempo, quasi come fosse un ricordo, quel pensiero che solo fino a pochi decenni fa influenzava ancora pesantemente la vita di molte società ed era capace di smuovere i sentimenti delle grandi masse. Dopo essere entrato di diritto nella storia sociale dell’umanità e aver contraddistinto in particolare il secolo breve, insomma, il comunismo è ormai un concetto superato.
Anche la rossa Repubblica Popolare Cinese ha dovuto fare i conti con il capitalismo e con un’epoca dove il relativismo e il mercato sono tutto e dove gli ideali sono sempre più confinati in uno stretto recinto dal quale sembrano non poter più uscire. Tanto è vero che oggi sono semmai le religioni a essere tornate prepotentemente al centro dei più aspri dibattiti culturali e delle lotte rivoluzionarie (vedere la Siria per capire).
Con il Nobel per la Pace a Juan Manuel Santos, la comunità internazionale mette inoltre il cappello sulla fine di un conflitto ormai anacronistico, tentando di riequilibrare in favore della riconciliazione le sorti incerte della pace, dopo che il popolo colombiano ha bocciato nel referendum l’accordo sulla fine delle ostilità con le FARC.
La firma della pace a Cartagena decreta comunque un’importante evoluzione politica anche nel difficile contesto sociale del Sudamerica, dove per molti il marxismo-leninismo aveva rappresentato una speranza e una fuga dalle ingiustizie, e dove oggi restano in piedi battaglie molto più effimere, come la lotta alla corruzione o peggio quella tra cartelli per la produzione e smercio della droga, che è tristemente assurta al nuovo e assai più corrispondente al vero “oppio dei popoli”.
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di Rocco Bellantone
@RoccoBellantone
I due missili lanciati il 10 ottobre in Yemen dai ribelli Houthi contro un cacciatorpediniere americano nel Mar Rosso sono lo specchio dell’andamento di una guerra che sta lentamente sfuggendo di mano tanto agli Stati Uniti quanto all’Arabia Saudita.
Il Pentagono ha precisato che la nave USS Mason, che al momento dell’attacco si trovava a nord dello stretto di Bab el-Mandeb, non è stata colpita e che dunque non ci sono stati né morti né feriti. Si tratta comunque di un episodio significativo, considerato che sempre in quest’area del Mar Rosso, da dove transitano le petroliere che dall’Oceano Indiano raggiungono il Mediterraneo passando attraverso il Canale di Suez, all’inizio di settembre gli Houthi avevano detto di aver distrutto una nave militare degli Emirati Arabi Uniti, potenza del Golfo che fa parte della coalizione a guida saudita impegnata in Yemen dal marzo del 2015 per ristabilire al potere il deposto presidente Abdrabbuh Mansour Hadi.
Lo stretto di Bab el-Mandeb è presidiato da una flotta americana composta da altre due navi da guerra oltre la USS Mason. Le navi, armate con missili da crociera Tomahawk, trasportano a bordo diversi contingenti delle forze speciali USA che, con la copertura dei droni, effettuano missioni mirate sul terreno per uccidere jihadisti affiliati ad AQAP (Al Qaeda nella Penisola Araba) o allo Stato Islamico.
Sempre il 10 ottobre la tv di stato saudita ha dato notizia del lancio di un missile dal territorio yemenita a Taif, dove ha sede la base aerea King Fahad in cui personale militare statunitense si occupa dell’addestramento delle forze armate di Riad. Anche in questo caso l’attacco non ha causato né vittime né feriti ma solo qualche danno materiale alla struttura. Il fatto che però il missile sia stato lanciato in profondità in territorio saudita (oltre 520 chilometri dai confini con lo Yemen) dimostra che gli Houthi stanno ricevendo armi sempre più sofisticate dai loro sponsor esteri, vale a dire dall’Iran. Negli stessi giorni Riad ha denunciato un altro attacco da parte dei ribelli sciiti contro la base militare di Marib, nel centro dello Yemen, dove i soldati sauditi cooperano con i miliziani filo-governativi fedeli al presidente Hadi.
Dopo i raid aerei sauditi che l’8 ottobre a Sanaa hanno ucciso oltre 150 persone – tra cui diversi capi politici e militari dei ribelli – radunatesi per la celebrazione di un funerale, una reazione veemente da parte degli Houthi era d’altronde facilmente pronosticabile.
A pagare le conseguenze politiche di quella strage sono però adesso soprattutto gli Stati Uniti, accusati tanto da Mosca quanto da Teheran di usare due pesi e due misure nel gestire il dossier siriano e quello yemenita. Russia e Iran accusano gli USA di non esitare a parlare di crimini contro l’umanità riferendosi ai bombardamenti russi e siriani su Aleppo, ma di voltarsi dall’altra parte di fronte ai raid sauditi che più volte nell’ultimo anno e mezzo hanno colpito indistintamente civili e ribelli a Sanaa e in altre aree dello Yemen controllate dagli Houthi.
La risposta risiede nell’alleanza, economica e militare, che da tempo lega Washington a Riad, e a cui gli USA, soprattutto in un momento di massima debolezza nella grande guerra in Medio Oriente, non possono rinunciare. Gli Stati Uniti garantiscono supporto di intelligence all’esercito saudita ma soprattutto armi, attestandosi ad oggi come il loro principale fornitore. Oltre che su questi interessi, Riad sa di poter far leva anche sulla necessità di Washington di avere un alleato per quanto possibile affidabile nello scacchiere mediorientale, non solo per provare a contenere l’espansione della sfera di influenza russa in Siria (USA e Arabia Saudita finanziano e armano ribelli e jihadisti che combattono contro il regime di Assad, sostenuto invece da Mosca), ma anche per tenere a freno le velleità dell’Iran, che dopo la firma dell’accordo sul suo programma nucleare ha confermato i timori di Israele alzando il tiro in Siria, Iraq e Yemen in funzione anti-sunnita.
Quella americana è una strategia non priva di rischi, che presto potrebbe risucchiare gli Stati Uniti anche nel conflitto in Yemen, in quella che finora è stata considerata a torto una guerra di “serie B” rispetto a quella siriana. I fatti degli ultimi due giorni dicono infatti che la ribellione degli Houthi presto potrebbe andare oltre i confini della contesa regionale tra Arabia Saudita e Iran. E gli inviti al dialogo della comunità internazionale, nel mentre non solo gli USA ma anche Regno Unito e Italia continuano a inviare forniture militari a Riad, di certo non basteranno per frenare questa deriva. Così come non rassicura la promessa della Casa Bianca di “rivedere” la cooperazione militare con Riad e di avviare un’indagine accurata dopo gli ultimi bombardamenti su Sanaa.
I diciotto mesi della campagna militare della coalizione araba a guida saudita non hanno fermato gli Houthi, dimostratisi capaci di mantenere salde le posizioni attorno a Sanaa e lungo buona parte delle coste, forti non solo del sostegno dell’Iran ma anche di quello di parte dell’esercito regolare e delle milizie rimaste fedeli all’ex presidente Ali Abdullah Saleh. Sul fronte opposto, Riad ha dalla sua risorse economiche e militari più che sufficienti per portare avanti ancora a lungo questa guerra. Ma la cerchia dei suoi alleati lentamente si sta sgretolando. Gli Emirati, in particolare, da tempo hanno dato mandato ai propri emissari per lavorare sulla soluzione separatista che condurrebbe alla formazione di un’entità governativa autonoma del sud con capitale ad Aden, così come era stato dal 1970 al 1990 con la Repubblica Democratica Popolare dello Yemen prima dell’unificazione del Paese.
Trascurato diplomaticamente dagli Stati Uniti e dall’Europa, deluso dalle Nazioni Unite che continuano ad assistere impotenti a sistematiche violazioni dei diritti umani, alimentato da armi e finanziamenti che arrivano dall’estero, manipolato dall’Arabia Saudita così come dall’Iran, il conflitto nello Yemen sta diventando un’altra Siria, seppure su scala più ridotta, come scrive il Guardian. Ma, così come accaduto in Siria, presto potrebbe degenerare e cogliere impreparato l’Occidente per l’ennesima volta.
(Grafici The Guardian, Al Jazeera)
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