di Alfredo Mantici
Il 19 e 20 ottobre due successive tregue, la prima di dodici ore e la seconda di tre giorni, proclamate rispettivamente dai russi e dalle forze di Bashar Al Assad, hanno consentito l’apertura di corridoi umanitari nella parte nord-orientale della città assediata di Aleppo, tuttora sotto il controllo delle milizie islamiste del Fronte Jabhat Al Nusra (che ha recentemente cambiato nome in Jabhat Fateh Al Islam), dove sono rimasti intrappolati 275.000 abitanti della città.
La televisione di stato siriana ha mandato in onda le immagini di decine di autobus in attesa presso i due varchi aperti, pronti ad accogliere sia i civili che i miliziani disposti ad arrendersi. L’esercito di Damasco accusa i ribelli di bloccare il trasferimento dei civili verso le aree controllate dai lealisti, preferendo usarli come scudi umani. L’accusa è stata indirettamente confermata da un portavoce degli jihadisti, citato dall’agenzia Reuters, che nella giornata del 20 ottobre ha dichiarato che le forze ribelli si oppongono al passaggio dei civili verso le zone sicure perché se le aree sotto attacco vengono “svuotate dei civili, Mosca e Assad potrebbero completare la conquista della città”, rendendo molto chiaro che le formazioni armate ribelli contano proprio sulla presenza dei civili nelle aree da loro controllate, per fermare l’offensiva delle forze governative.
(Mosca, 19 ottobre 2016: il briefing del generale russo Rudskoy sulle operazioni in Siria)
La tregua impossibile ad Aleppo
Nelle vicinanze dei corridoi umanitari, come risulta dalle immagini diffuse dall’emittente televisiva siriana Mayadeen, camion militari siriani dotati di altoparlanti diffondono appelli ad approfittare della tregua con questo tenore: “Garantiamo un passaggio sicuro. Approfittate di questa opportunità e salvate le vostre famiglie… Noi garantiamo un rifugio, pasti caldi e assistenza medica per tutti. I ribelli abbandonino le armi. Ripetiamo, questa è l’ultima opportunità”.
Dal fronte anti-Assad la risposta è stata però negativa: non soltanto gli incroci dove sostavano gli autobus pronti per l’evacuazione dei civili sono stati bombardati a colpi di mortaio provenienti dalla parte assediata della città, ma il portavoce di Al Nusra Abu Obeida Al Ansari, ha dichiarato bellicosamente alla Reuters: “Stiamo aspettando il segnale per dare avvio alla battaglia decisiva che sorprenderà sia il regime sia il suo esercito”.
(Il presidente russo Vladimir Putin)
Insomma, sembra che la sorte dei civili di Aleppo interessi soltanto all’inviato speciale delle Nazioni Unite, Staffan De Mistura, il quale da settimane tenta invano di trovare una via d’uscita a quella che si annuncia come una prossima, certa, catastrofe umanitaria. Solo nelle tre settimane trascorse dall’ultima tregua fallita, nell’area nord-orientale di Aleppo sono morti 370 civili e oltre 1.200 sono rimasti feriti, in gran parte rimasti privi di assistenza sanitaria.
Lo strabismo USA che guarda solo a Mosul
La diplomazia americana sembra da qualche giorno stranamente silenziosa sulla sorte della città siriana, mentre gli sforzi militari USA sembrano polarizzati esclusivamente sull’offensiva che il governo iracheno ha lanciato nei giorni scorsi per liberare Mosul, la seconda città per importanza dell’Iraq, occupata fin dall’estate del 2014 dalle truppe del Califfato. Secondo il sito israeliano Debka File, generalmente ritenuto bene informato in quanto “vicino” ai servizi segreti di Tel Aviv, “la retorica bellicosa di Washington sulla situazione della disgraziata città di Aleppo non esprime alcuna intenzione da parte dell’amministrazione Obama di intervenire per fermare le stragi: Obama ha la mente rivolta altrove”.
(Obama e Hillary Clinton alla convention democratrica di Philadelphia, 26 luglio 2016)
L’analisi di Debka sostiene che, dopo il fallimento dei colloqui di pace in Siria tra il segretario di Stato John Kerry e il suo omologo russo, Sergei Lavrov, il presidente Obama avrebbe deciso il totale disimpegno americano dal teatro siriano, per concentrare tutti gli sforzi sull’Iraq e sulla liberazione di Mosul. Questa, nelle intenzioni del presidente americano uscente, dovrebbe realizzarsi entro le prossime settimane, giusto in tempo per dimostrare agli americani l’impegno diretto e risolutivo dell’amministrazione Obama nella lotta contro l’ISIS, aiutando così la corsa elettorale di Hillary Clinton con un successo militare in Iraq e mettendo i bastoni tra le ruote della campagna presidenziale di Donald Trump (uno dei cavalli di battaglia del tycoon è proprio l’inerzia fin qui dimostrata dalla Casa Bianca nella guerra al Califfato).
La lotta all’ISIS in chiave elettorale
In sostanza, Barack Obama – forse memore di quando, durante la guerra di secessione, la conquista della roccaforte confederata di Atlanta da parte delle forze nordiste nell’autunno del 1864 assicurò la rielezione ad Abraham Lincoln – mira a conseguire a Mosul un successo militare spendibile durante le ultime battute della campagna elettorale dal candidato del suo partito, lasciando ai russi campo libero ad Aleppo. É un’ipotesi suggestiva e abbastanza fondata, visto che la posta in campo non è mai stata la Siria ma la Casa Bianca.
Un’ipotesi alla quale forse crede anche Vladimir Putin, che non a caso ha dato ordine alla flotta russa del Baltico, compresa la portaerei Admiral Kuznetzov, di trasferirsi a tutta velocità nel Mediterraneo per prendere parte alle operazioni in Siria. Mosul e Aleppo diventano così due tappe non tanto della lotta contro l’ISIS, quanto piuttosto del “grande gioco” tra Mosca e Washington e, quel che è peggio, due carte da giocare nella campagna elettorale americana. Con tanti saluti alle popolazioni assediate e agli appelli “umanitari” dell’ONU.
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Fonte:
http://www.lookoutnews.it/siria-aleppo-scontro-usa-russia/