mercoledì 26 ottobre 2016

La Bulgaria verso le elezioni presidenziali

di Luigi Rossiello

 

Io non voto per nessuno. È questa la più grande novità che potrebbe influenzare le prossime elezioni presidenziali in Bulgaria. Nella consultazione del 6 novembre per le elezioni presidenziali, i cittadini bulgari potranno infatti disporre per la prima volta di questa opzione, dopo l’introduzione di un nuovo emendamento alla legge elettorale che prevede l’obbligatorietà del voto anche nel caso in cui l’elettore non intenda esprimere la propria preferenza per nessuno dei candidati.

 

Come c’era da attendersi, le polemiche relative a questo emendamento, che definire confuso è poco, non potevano mancare. La maggiore controversia riguarda il valore che verrà attribuito alle schede in cui verrà barrata l’opzione “Io non voto per nessuno”.

 

Se in un primo momento si voleva attribuire un valore a tale voto solo in termini di affluenza, sembra adesso che le schede con tale opzione verranno conteggiate nei risultati finali. Perché, secondo chi è contrario a questo meccanismo, chi porrà il segno sull’opzione “Io non voto per nessuno” finirà per dare un vantaggio al candidato che ha le maggiori possibilità di vittoria.

 

Le polemiche politiche tra favorevoli e contrari a questo nuovo meccanismo gravano ora sulla Commissione Elettorale Centrale e sulla Corte Costituzionale, alla quale diversi partiti si sono già appellati chiedendo che vengano applicate le norme costituzionali.

 

Chi sono i candidati in gara

In Bulgaria per essere eletto presidente della Repubblica al primo turno un candidato deve ottenere la maggioranza assoluta dei voti, con un’affluenza del 50% più 1 degli aventi diritto. Un eventuale secondo turno è previsto per il 13 novembre.

 

Attualmente, considerando i sondaggi più recenti, Tsetska Tsacheva, candidata del partito di centro-destra Gerb (Cittadini per lo sviluppo europeo della Bulgaria) del premier Boyko Borisov, sembra essere la favorita. La sua principale sfidante è Rumen Radev, ex comandante dell’aeronautica nominato dal Partito Socialista Bulgaro (BSP).

 

Tsetska Tsacheva(Tsetska Tsacheva, candidata del partito di centro-destra Gerb)

 

I due candidati principali, nella serata di mercoledì 19 ottobre, hanno dato vita a un dibattito televisivo in stile americano. Durante la trasmissione, tra reciproci attacchi e sfoggio di retorica, il candidato del Gerb e quello del BSP si sono confrontati soprattutto su questioni riguardanti la politica estera e le sanzioni nei confronti della Russia.

 

Al netto del fatto che il voto del 6 novembre è una corsa tra i due, non vanno comunque dimenticati gli altri candidati in competizione. Sono ben 21 tra cui musicisti, showmen, un ex galeotto, un deputato nazionalista accusato di pedofilia e Plamen Oresharski, conosciuto per essere stato il meno popolare primo ministro nella storia del Paese. È il numero più alto di candidati alla presidenza dal 1992, anno delle prime presidenziali democratiche in Bulgaria.

 

Rumen Radev(Rumen Radev, candidato del Partito Socialista Bulgaro, foto Novinite.com)

 

Parlando di numeri, da segnalare è il record di 34mila bulgari che hanno fatto richiesta di votare dall’estero. Le quote maggiori si sono registrate in Regno Unito con 7.106 richieste, in Turchia (6.587), Germania (3.508) e negli Stati Uniti (2.933). Sempre il 6 novembre, gli elettori sono anche chiamati a esprimersi attraverso un referendum circa l’adozione del sistema maggioritario per le elezioni dei parlamentari, sull’obbligatorietà del voto (nonostante l’emendamento sia già stato approvato) e sulla riduzione del sussidio di Stato per ogni voto valido ottenuto dai partiti e dalle coalizioni alle elezioni parlamentari.

 

Bulgaria, tra Europa e Russia

Se è pur vero che le elezioni presidenziali bulgare non stanno avendo grosso appeal mediatico, né possono essere considerate un rilevante evento politico rispetto ad altri in corso a livello internazionale (in primis le elezioni americane dell’8 novembre), a destare maggior interesse è piuttosto il contesto generale nel quale si tengono queste consultazioni.

 

La Bulgaria, infatti, può essere considerata una terra di confine tra l’Unione Europea e le sue frontiere a est. L’affaccio sul Mar Nero la pone anche come baluardo in uno scacchiere più ampio in cui i due blocchi, Ovest ed Est, stanno tornando a confrontarsi in modo sempre più critico.

 

Sulla posizione della Bulgaria, a metà strada tra i due blocchi si è espresso chiaramente l’ambasciatore statunitense a Sofia Eric Rubin. A suo dire è assolutamente sbagliato pensare che il Paese non possa avere buoni rapporti con la Russia solo perchè è membro della NATO e dell’UE. Il suo intervento non è stato però casuale, poiché è arrivato proprio nel momento di maggiore presenza russa in terrirorio bulgaro. E per contrastare mediaticamente questa presenza, l’ambasciatore Rubin ha ricordato i cospicui investimenti targati USA effettuati negli ultimi tre anni in Bulgaria in settori come l’agricoltura, la tecnologia, la ricerca e lo sviluppo.

 

Rosen Plevneliev(Il presidente della Bulgaria Rosen Plevneliev)

 

Paese dell’Europa sudorientale, membro della NATO dal 2004 e dell’Unione europea dal 2007, la Bulgaria garantisce, ormai da tempo, una certa affidabilità ai partner occidentali. Allo stesso tempo, però, Sofia non può permettersi di compromettere totalmente il dialogo con Mosca. Il presidente uscente Rosen Plevneliev ha di recente dovuto precisare di non avere un atteggiamento aggressivo nei confronti della Russia, nonostante dal 2014 sia uno dei più convinti critici di Vladimir Putin in merito all’annessione della Crimea alla Federazione Russa e alla situazione in Ucraina orientale.

 

Tale presa di posizione ha più volte portato Plevneliev a uno scontro con il primo ministro bulgaro Borisov, il quale lo ha accusato di non contribuire al buon andamento delle relazioni bilaterali tra i due Paesi.

 

È innegabile, inoltre, che le sanzioni occidentali applicate nei confronti della Russia abbiano evidenziato come la Bulgaria sia fortemente dipendente da Mosca per quanto riguarda l’energia, le entrate relative al turismo e per parte delle esportazioni.

 

Le difficoltà economiche della Bulgaria hanno dunque un peso specifico nei rapporti tra i due Paesi. Nonostante l’agenzia Moody’s abbia di recente confermato il suo rating a un livello Baa2 (grado di protezione medio) con una previsione stabile, rilevato come diversi indicatori sul lungo periodo siano relativamente favorevoli e previsto che il consolidamento fiscale continuerà anche per il prossimo anno, le difficoltà del Paese più povero dell’Unione Europea sono innegabili. Motivo per cui c’è da attendersi che, a prescindere da chi sarà il nuovo presidente, tanto il Cremlino quanto l’Occidente continueranno a fare leva su queste debolezze per attirare nella loro orbita la Bulgaria.

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Fonte: http://www.lookoutnews.it/bulgaria-elezioni-presidenziali-6-novembre-2016/

Il potere mediatico del camice bianco

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Non ci volevo andare a quel dibattito. Non ci dovevo andare a quel dibattito. Evito sempre come la peste i dibattiti dove c’è un “pro” e un “contro”. Sia che io debba sostenere la parte del pro oppure del contro. Questo tipo di dibattiti credo serva quasi a nulla al pubblico, che esce spesso più [...] [...]

Autore: pappagone | Categoria: Salute e Alimentazione | Voti: 1 - Commenti: 0


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Sondaggi politici, 26 ottobre 2016: il M5S a un passo dal PD

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I sondaggi politici confermano le difficoltà del Partito Democratico. [...]

Autore: Articolo3 | Categoria: Politica | Voti: 3 - Commenti: 0


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I NUOVI Senatori costeranno di più degli attuali

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Durante la discussione, finita con il reinvio del ddl in commissione, della norma taglia-stipendi del M5S, l'onorevole Rosato del PD ha fatto un po' di campagna elettorale per il referendum (dicendo che i grillini aspettano il rinvio solo per motivare il loro NO alle riforme costituzionali, e se n'è uscito con un "noi li cancelliamo [i Senatori]". No, caro Rosato, no. [...]

Autore: fareprogresso | Categoria: Politica | Voti: 1 - Commenti: 0


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Alberto Mingardi: "Monti ci salvò la faccia, ma da allora non abbiamo imparato nulla"

Per il direttore dell'Istituto Bruno Leoni, era normale che nel 2011 qualcuno avesse un piano alternativo a Berlusconi. Ma ora anche Renzi è tornato all'antico: rilanciare l'economia "dando qualche mancia". [...]

Autore: votAntonio | Categoria: Politica | Voti: 4 - Commenti: 0


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Libia: perché ISIS continua a resistere a Sirte

di Rocco Bellantone

@RoccoBellantone

 

Quella che doveva essere una “guerra lampo” per eliminare le ultime sacche di resistenza dello Stato Islamico in Libia, si sta rivelando per gli USA un’operazione più lunga e dispendiosa del previsto. Un motivo di preoccupazione in più per Barack Obama, che il primo agosto scorso aveva dato il via ai raid aerei su Sirte nella speranza di poter chiudere il suo secondo e ultimo mandato alla Casa Bianca attestandosi quantomeno la paternità della liberazione della Libia dal Califfato.

 

Nella roccaforte di Sirte ISIS continua invece a resistere. Stando alle ultime stime del Washington Post, sono circa 100 i miliziani asserragliati in un’area residenziale situata al centro della città costiera, nominata nel 2015 capitale dell’emirato islamico in Libia dal Califfo Abu Bakr Al Baghdadi. La scorsa settimana, in un solo giorno 14 di loro sono stati uccisi nel corso delle offensive portate avanti dalle milizie di Misurata, la forza armata in prima linea in questi combattimenti, alleata del Governo di Accordo Nazionale guidato dal premier designato dalle Nazioni Unite Faiez Serraj e coperta nel suo ingresso nella città dai caccia e dai droni statunitensi.

 

Nonostante l’enorme sproporzione di forze a loro sfavore, i jihadisti si sono però finora mostrati capaci di rispondere agli attacchi. E così come sta accadendo in questi giorni a Mosul, la capitale dello Stato Islamico in Iraq, il solo fatto di riuscire a trascinare l’Occidente il più a lungo possibile in una battaglia di logoramento, rappresenta un grande motivo d’orgoglio per i vertici del Califfato nonché, soprattutto, un formidabile strumento mediatico da utilizzare a fini propagandistici sul web.

 

Le operazioni militari per riprendere il controllo di Sirte, città in grandissima parte ormai spopolata, stando alle previsioni degli strateghi americani non avrebbero dovuto presentare particolari ostacoli, principalmente per tre motivi: il numero di miliziani al soldo del Califfato, contenuto rispetto ai teatri di guerra di Siria e Iraq, nonostante l’afflusso consistente dal 2015 di miliziani provenienti dal Nord Africa (Tunisia ed Egitto principalmente) ma anche dal Sahel e dall’Africa subsahariana (soprattutto dai “fratelli” di Boko Haram, affiliati al Califfato); la mancanza di supporto alla causa jihadista da parte della popolazione locale, cosa che invece si è registrata tanto a Mosul quanto a Raqqa, specie subito dopo la proclamazione della nascita del Califfato nel giugno del 2014; la poca solidità economica dell’emirato di Sirte, sul cui destino ha pesato soprattutto il fallimento del progetto di conquistare i pozzi e i terminal petroliferi della “Mezzaluna Petrolifera”, ora sotto il controllo del generale della Cirenaica Khalifa Haftar.

 

Sirte_mappa

 

I limiti delle milizie di Misurata

Al netto di questi elementi a proprio favore, sin dall’inizio della campagna di Sirte nel maggio scorso le milizie di Misurata sono però rimaste impantanate nella battaglia. Male armati e poco pagati, non supportati a dovere dal governo per il quale combattono, vale a dire quello di Serraj, i misuratini si sono lentamente sfaldati. Le perdite sono aumentate di settimana in settimana. In centinaia sono morti a causa delle trappole esplosive disseminate dai jihadisti all’interno della città, altri sono stati presi alla sprovvista in imboscate, altri ancora uccisi dai cecchini. Nella guerriglia urbane e nei rastrellamenti casa per casa il bilancio dei morti è continuato a lievitare, con gli irriducibili di ISIS nascosti in tunnel e gallerie sotterranee pronti a colpire il nemico all’improvviso. Tutto ciò, unito alla fatiscenza degli ospedali libici in cui vengono trasferiti i feriti – a cui il governo di Tripoli spera si possa porre rimedio con l’ospedale da campo allestito dall’esercito italiano a Misurata – ha rallentato sensibilmente la marcia su Sirte. Al punto che, secondo stime americane, nelle ultime settimane i miliziani libici avrebbero guadagnato terreno in media ogni giorno per poco più di cento metri.

 

Gli errori di previsione degli USA

L’appoggio aereo degli USA, che sulla carta avrebbe dovuto permettere di portare a termine la conquista di Sirte entro poche settimane, ha indiscutibilmente “scosso” la situazione, ma non per come previsto. Dal primo agosto aerei da combattimento AV-8B Harrier della Marina e soprattutto droni sono decollati dalla nave da guerra USS Wasp per compiere circa 330 raid contro obiettivi jihadisti. Mentre la nave d’assalto anfibia USS San Antonio è pronta a fornire supporto alle forze speciali inviate sul posto, che coordinano e accompagnano le offensive di terra delle milizie di Misurata da una base allestita alle porte di Sirte. Ma nonostante gli sforzi sostanziosi, la missione non è stata ancora compiuta, l’operazione è stata prolungata due volte e sono iniziate a piovere critiche anche dalle forze pro-Serraj sulla scarsa efficacia dei bombardamenti americani.

 

Il colonnello Mark Cheadle, portavoce di AFRICOM (United States Africa Command), ha spiegato che nel fornire supporto aereo ai libici gli USA stanno cercando di limitare il numero di vittime tra i civili, evitando di sganciare bombe su palazzi che potrebbero ancora essere abitati. Washington, in sostanza, teme quegli effetti collaterali che però nel 2011 non impedirono a Obama di “benedire” l’abbattimento del regime di Gheddafi. Difficile però non credere alle parole del colonnello Cheadle, per il quale la presa di Sirte è solo questione di tempo, così come è inevitabile che ISIS prima o poi dovrà cedere buona parte se non tutto ciò che ha conquistato in questi due anni in Siria e Iraq. Il problema però è il dopo, ovvero cosa sarà di Sirte, così come di Mosul, dopo la sconfitta di ISIS.

 

Libia_ISIS_Sirte(Sirte: un miliziano delle forze pro-Serraj durante gli scontri con ISIS)

 

A Tripoli, dopo il ritorno nella capitale del premier del Governo di Salvezza Nazionale Khalifa Ghwell, il quale rivendica la premiership in mano a Serraj, domina il caos politico e istituzionale. Un caos su cui pesa l’ombra del “terzo governo”, cioè quello della Cirenaica del premier Abdullah Al Thinni e del generale Khalifa Haftar.

 

Se a Sirte le milizie di Misurata hanno rallentato l’avanzata è anche per queste tensioni. I comandanti militari, restii a spingere le proprie truppe allo scontro ravvicinato con i jihadisti, si chiedono a chi dovranno rispondere una volta liberata la città. Verranno ripagati per gli sforzi compiuti, o finiranno per scontrarsi con l’esercito regolare di Haftar? È una domanda che tutti si pongono in Libia. Ma a cui nessuno, compresa l’Italia, non sa dare una risposta. Risposte che potrebbero arrivare invece, già a stretto giro, da Russia e Paesi del Golfo, con in testa l’Arabia Saudita. Sentitosi abbandonato dall’Occidente, Serraj si sta adesso rivolgendo con più insistenza al Cremlino nel tentativo di salvare il salvabile del suo fragile governo.

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Alessia Morani su Twitter: “Aggredita da attivista M5s”. I deputati grillini: “Non sono stati i nostri, faccia denuncia”

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La deputata Pd Alessia Morani ha scritto su Twitter di essere stata aggredita da un attivista M5s davanti alla Camera, poco dopo il sit-in organizzato dai grillini per sostenere la proposta di legge sulla riduzione delle indennità degli onorevoli (che è stata rinviata in commissione dalla maggioranza). Il gruppo 5 stelle a Montecitorio in una … [...]

Autore: voxpopuli | Categoria: Politica | Voti: 5 - Commenti: 0


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Alessia Morani su Twitter: “Aggredita da attivista M5s”. I deputati grillini: “Non sono stati i nostri, faccia denuncia”

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La deputata Pd Alessia Morani ha scritto su Twitter di essere stata aggredita da un attivista M5s davanti alla Camera, poco dopo il sit-in organizzato dai grillini per sostenere la proposta di legge sulla riduzione delle indennità degli onorevoli (che è stata rinviata in commissione dalla maggioranza). Il gruppo 5 stelle a Montecitorio in una … [...]

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Trump contro Clinton: dove è finita l’obiettività dei media americani?

di Alfredo Mantici

 

A tredici giorni dal voto per l’elezione del prossimo presidente degli Stati Uniti, in programma l’8 novembre, la campagna elettorale più aggressiva della storia recente americana sembra essere entrata in una fase di stallo e di torpore. I due candidati principali, la democratica Hillary Clinton e il repubblicano Donald Trump, hanno improvvisamente smarrito la verve polemica che li ha contrapposti nei tre duelli televisivi, esaurendo la scorta di insulti che si sono scambiati senza risparmiarsi nell’ultimo mese.

 

Hillary Clinton sembra soddisfatta del vantaggio che le danno gli ultimi sondaggi che le offrono, apparentemente, un buon margine di vantaggio rispetto a Trump. L’ansia per gli esiti della campagna si sta spostando pertanto sul Campidoglio di Washington, dove i repubblicani cominciano a temere che un eventuale insuccesso del loro candidato potrebbe avere effetti collaterali negativi per la corsa ai seggi della Camera dei Rappresentanti e del Senato, dove dal 2012 nonostante la vittoria di Barack Obama, avevano conservato la maggioranza. I media americani, con qualche rara eccezione, iniziano a dare il miliardario di New York per spacciato.

 

I media a favore di Hillary Clinton

A questo proposito, occorre sottolineare che la stampa americana, essendosi apertamente schierata nella stragrande maggioranza delle testate a favore della Clinton, ha obiettivamente perso parte della sua attendibilità. Un’interessante analisi di Daniele Scalese pubblicata sul Foglio il 24 ottobre evidenzia infatti che il sistema dei media d’oltreoceano si è progressivamente trasformato negli ultimi trent’anni, perdendo quello smalto di indipendenza politica che ne faceva un baluardo della democrazia americana. Negli anni Ottanta il 90% dei media negli Stati Uniti, secondo quanto rilevato dal quotidiano diretto da Claudio Cerasa, era controllato da 50 società. Oggi la stessa quota è sotto il controllo di sei potenti gruppi: CBS, Comcast, News Corporation, Time Warner, Viacon e Walt Disney, “tutti finanziatori attivi della campagna di Hillry Clinton”.

 

Questo dato, imbarazzante per quella che ambisce a essere la prima democrazia del mondo, la dice lunga sull’attendibiltà del flusso di informazioni e di analisi sui temi della campagna elettorale che, sull’altra sponda dell’oceano, si riversa quotidianamente sull’opinione pubblica europea, indubbiamente influenzata dalle posizioni “sospette” di media posseduti dai sei oligopoli tutti schierati a favore della Clinton.

 

La corsa alla Casa Bianca si è così trasformata in un duello tra un miliardario cafone e xenofobo e una paladina dei diritti civili presentata quasi come una nuova Giovanna d’Arco in lotta per la democrazia. Poche e inascoltate voci hanno provato a interrogarsi sui programmi politici dei due candidati, sulle loro motivazioni e sulla loro reale capacità di leadership. Nessuno ha sollevato dubbi sull’indubbia, sfrenata, ambizione di una donna, Hillary Clinton, che dopo essere già stata per otto anni inquilina della Casa Bianca nella veste di “first lady” molto influente e ascoltata dal marito, lotta per tornare in quella Casa nella veste di “comandante supremo” con la prospettiva di restarci per altri otto anni. Aspirazione legittima, per carità, ma forse qualche riflessione su questo tentativo di successione “dinastica” sarebbe stato utile e apprezzabile.

 

USA VS.TRUMP - LOOKOUT NEWS - COPERTINA

MERCOLEDÌ 26 OTTOBRE LA PRESENTAZIONE A ROMA ALLA LIBRERIA FAHRENHEIT 

 

 

 

Per quanto riguarda Trump, le sue sparate hanno completamente spazzato via dalle pagine dei giornali e dagli schermi televisivi le analisi sui suoi programmi politici e sulla loro potenziale presa su un elettorato sempre più frastornato dai toni di una campagna elettorale nella quale l’insulto ha rimpiazzato la dialettica politica. Il 23 ottobre, a conferma di questo trend, il New York Times ha pubblicato, per la gioia dei circoli liberal della costa orientale, l’elenco dei 272 epiteti ingiuriosi rivolti durante l’intera campagna elettorale da Trump ai suoi avversari politici. Una mossa a effetto, da parte di un giornale che ha per primo ufficializzato il suo aperto sostegno alla candidata democratica, che però nulla aggiunge alla necessaria riflessione sui temi di politica interna e di politica estera del programma del candidato repubblicano.

 

Cosa dicono gli ultimi sondaggi

Per quanto riguarda i sondaggi, chi più chi meno assegnano tutti un vantaggio di consensi potenziali alla candidata democratica, anche se da più parti si levano voci che mettono in guardia su queste rilevazioni che nel corso degli anni si sono trasformate da strumenti di analisi delle tendenze elettorali, in potenti armi di insidioso condizionamento dell’opinione pubblica.

 

I sondaggi, dicevamo. Per onestà di analisi, merita di essere citato quello condotto da Helmut Norphot, professore di scienze politiche presso l’Università newyorkese Stony Brock, il quale basandosi su un modello matematico che gli ha consentito già di anticipare le vittorie di Bill Clinton nel 1996, di George W. Bush nel 2004 e di Barack Obama nel 2012, sostiene che Donald Trump sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti. Una previsione azzardata, forse, ma che comunque è stata opportunamente “oscurata” dal sistema mediatico, probabilmente nel timore che potesse influenzare gli indecisi facendoli propendere per Trump.

 

Hillary probabilmente vincerà la corsa per la Casa Bianca. Ma come nuovo presidente degli Stati Uniti, possiamo starne certi, dovrà pagare un conto molto salato ai gruppi finanziari che l’hanno sostenuta e, in particolare, a quei sei giganti del mondo dei media che tanto vento hanno soffiato nelle vele della sua campagna.

 

(Foto apertura New York Post)

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Gorino, il parroco: “Chi sono io per giudicare? Nessuno ha avvisato per tempo. Qui mancano i servizi”

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“Chi sono io per giudicare? Io le barricate non le comprendo, ma alle barricate non si sarebbe dovuto neppure arrivare. Se io vengo a casa sua e le porto dieci persone, la avviso un po’ prima così che lei possa prepararsi, no?”. Don Paolo Paccagnella è da oltre 25 anni parroco di Gorino, il paese … [...]

Autore: ilFattoQuotidiano | Categoria: Cronaca | Voti: 1 - Commenti: 0


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L’indagine sulle presunte firme false del M5S a Bologna

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Sta per esplodere un nuovo caso di firme false e irregolari nel MoVimento 5 Stelle? L’edizione di Bologna di Repubblica racconta di un’indagine dei Carabinieri sulla raccolta firme per le elezioni regionali del 2014. La vicenda per la verità era venuta già alla luce nell’ottobre di due anni fa – poco prima delle elezioni regionali – quando due attivisti di Monzuno, Stefano Adani e Paolo Pasquino d [...]

Autore: votAntonio | Categoria: Politica | Voti: 3 - Commenti: 0


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Afghanistan, oppio: il dominio incontrastato dei talebani

Nel 2016 la produzione di oppio in Afghanistan è aumentata del 43% rispetto allo scorso anno. Lo dicono i dati pubblicati nell’ultimo rapporto presentato il 23 ottobre dall’UNODC, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine. Nell’anno in corso sono state prodotte oltre 48.000 tonnellate di oppio, rispetto alle 3.300 del 2015. Gli ettari coltivati sono passati invece a 201.000, il 10% in più rispetto ai 183.000 del 2015.

 

Oppio_Afghanistan

 

La crescita della produzione della pianta è dovuta anche a una maggiore resa dei terreni coltivati. Nelle regioni occidentali e meridionali, dove si concentra l’84 per cento della produzione totale, il rendimento di ogni ettaro è infatti aumentato da 16 a 22 chilogrammi per ettaro, registrando un incremento del 46%.

 

Afghanistan_oppio

 

Tra le province afghane il primato spetta a quella di Helmand, dove si trova il 40% delle terre dedicate alla coltivazione del papavero.

 

Afghanistan_oppio_traffici

 

Dall’aumento delle coltivazioni emergono i fallimenti dei tentativi di eradicazione di questa coltura, impediti sistematicamente dalle milizie talebane che continuano a fare dell’oppio la loro principale fonte di guadagno controllando la totalità dei traffici che partono dalla regione dell’AF-PAK diretti ai mercati occidentali, asiatici e del Golfo.

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Fonte: http://www.lookoutnews.it/oppio-afghanistan-produzione-2016/

“I Medici”, le imprecisioni storiche della serie

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I Medici, la serie tv che racconta in forma romanzata l’ascesa al potere della famiglia che governò Firenze per trecento anni, andrà in onda questa sera su Rai 1, dalle 21.15. A essere trasmessi saranno il terzo e il quarto episodio. Le prime due puntate sono andate in onda martedì 18 ottobre e hanno avuto un grande successo di pubblico, con oltre 7 milioni e mezzo di spettatori in una serata dove [...]

Autore: ilPostino | Categoria: Cultura e Spettacoli | Voti: 1 - Commenti: 0


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Matteo Renzi a In mezz'ora sul referendum. "Indennità in base alle presenze"

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Matteo Renzi ospite a In mezz'ora di Lucia Annunziata parla di "indennità in base alle presenze" riferendosi al referendum. Una controproposta rispetto a M5s, dice lui. Il premier ha iniziato la trasmissione ricordando che questa è "una delle sue settimane migliori da inizio mandato". C'è stato l'"orgoglio Paese da Obama e la legge di Bilancio, molto valida. Davvero un'ottima settimana". Ricorda l [...]

Autore: inkiesta | Categoria: Politica | Voti: 11 - Commenti: 0


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