martedì 15 novembre 2016
Zelig compie 20 anni, a dicembre un grande show con Michelle Hunziker e Christian De Sica
Per celebrare il ventennale dello show Mediaset, dal 2 dicembre andranno in onda quattro serate speciali condotte da Michelle Hunziker e Christian De Sica. Con una nuova sigla, tanti dei comici che hanno fatto la storia del programma e ospiti molto speciali. [...]
Autore: mynews24 | Categoria: Cultura e Spettacoli | Voti: 1 - Commenti: 0
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Ma davvero Donald Trump sarebbe un “working class hero”?
(New York) Credo che stia passando un’interpretazione del voto USA fuorviante e pericolosa per la quale Trump si rivelerebbe una sorta di “working class hero”. Vorrei invitare a riflettere su alcune questioni. [...]
Autore: Dandyna | Categoria: Politica | Voti: 3 - Commenti: 0
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La maionese light vegana senza uova
Negli anni, i condimenti e le salse hanno conquistato la nostra tavola, ma non sempre essi sono salutari e ipocalorici.
La nostra ricetta della maionese light, oltre a combattere il colesterolo, può essere un buon alleato per tutti coloro che hanno scelto la via del vegan.
Economica e facile da preparare, la ricetta della maionese light non sacrifica il gusto ma solo i grassi.
Cosa vi serve:
100 ml di latte di soia (meglio se quello senza zucchero)
130- 140 ml di olio di semi di mais o di girasoli
1 pizzico di sale
succo filtrato di mezzo limone
mezzo cucchiaino di senape in pasta
mezzo cucchiaino di curcuma (se non l’avete non preoccupatevi serve solo per dare il colore giallo alla nostra maionese)
frullatore ad immersione con contenitore a bordi alti (becker in plastica)
Preparazione:
Versate il latte di soia, l’olio di semi di mais e il succo di limone nel contenitore dai bordi alti. Poi aggiungete il sale, la senape in pasta e la curcuma (facoltativa).
Con movimenti dal basso verso l’alto amalgamate tutti gli ingredienti con il frullatore ad immersione.
Dopo 30 secondi la maionese vegana sarà pronta. Se la consistenza non vi soddisfa potete addensarla aggiungendo altro olio di mais. Fatela riposare in frigorifero per 30 minuti e vedrete che si solidificherà maggiormente.
Sebbene questa ricetta non necessiti dell’impiego delle uova, non rende la maionese vegana totalmente ipocalorica, quindi consigliamo di assumerla a piccole dosi conducendo una vita sana.
Consiglio:
Se al posto della curcuma e della senape ci aggiungete l’erba cipollina tagliata finemente, avrete la vostra maionese all’erba cipollina.
Ma potete provarla con altri ingredienti come le cime di rape o il concentrato di pomodoro: sentirete che bontà!
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Portland: le proteste contro Trump nella città degli opposti estremismi
di Alfredo Mantici
La vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali americane ha profondamente diviso il popolo statunitense e provocato un’ondata di proteste senza precedenti nella storia recente del Paese. Da New York a Los Angeles, da Philadelphia a San Francisco, da Seattle a Baltimora, migliaia di sostenitori delusi di Hillary Clinton sono scesi in strada per contestare la nomina di Trump a quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti all’insegna dello slogan “not my president” e per sottolineare che non si sentono rappresentati dal tycoon newyorkese.
Le proteste sono state in massima parte pacifiche e ordinate. A New York, nei giorni successivi alla chiusura delle urne elettorali, migliaia di persone sono ordinatamente sfilate sulla quinta strada per poi gridare il loro dissenso nelle vicinanze del quartier generale-abitazione del neo presidente, la Trump Tower che rappresenta il simbolo del successo economico e imprenditoriale dell’uomo che, contro tutte le aspettative e contro tutti i sondaggi, ha fatto svanire il sogno della Clinton di diventare la prima donna eletta alla Casa Bianca.
Portland, lo scontro senza fine tra bianchi e neri
Solo in una città, a Portland nell’Oregon, uno stato del nord-ovest americano, le manifestazioni sono degenerate in atti di violenza indiscriminata da parte dei dimostranti, molti dei quali sono usciti di casa non con cartelli di protesta bensì con mazze da baseball con cui hanno sfasciato vetrine e devastato negozi e centri commerciali. In molti, in Europa, sono rimasti stupiti dall’intensità delle proteste di Portland, più simili a quelle dei nostri no global che a quelle tradizionali che si tengono negli Stati Uniti, dove da sempre si consente ai cittadini di manifestare liberamente anche sulle soglie della Casa Bianca e del Campidoglio di Washington. A Portland le manifestazioni hanno invece assunto un colore anarco-insurrezionalista che a ben vedere ha forse poco a che fare con la vittoria di Trump, ma sembra piuttosto riconducile alle caratteristiche politiche e sociali esclusive di quella che gli americani hanno da tempo definito “La piccola Beirut”.
Portland è la città più importante dell’Oregon, uno stato ammesso nell’Unione nel 1859, alla vigilia dello scoppio della guerra civile tra il nord e il sud secessionista e schiavista. Nonostante aderisse all’Unione, l’Oregon, in aperta contraddizione con gli ideali degli stati fratelli del nord che scendevano in campo per abolire la schiavitù, tentò di realizzare quella che gli storici definiscono “l’Utopia bianca”, la fondazione cioè di uno Stato nel quale fosse esclusa la presenza dei “neri”. La segregazione razziale più rigida era scritta a chiare lettere nella Costituzione dello Stato ed è stata formalmente cancellata solo nel 2000. Le leggi che discriminavano i neri in tema di affitti e di acquisto di abitazioni, e il “codice etico” che rendeva molto difficile agli agenti immobiliari la vendita o l’affitto di case ai cittadini di colore, sono stati abrogati solo nel 1957.
(Portland, manifestanti anti-Trump in giro per la città con mazze da baseball)
Portlandia contro la gentrification
In questo bacino sociale ed economico ancora connotato dai sogni antistorici dell’“Utopia bianca”, per reazione negli ultimi anni è cresciuto al suo interno un microcosmo, definito dai media americani “Portlandia” ( dal nome di una popolare serie televisiva), composto da giovani libertari, anarcoidi e anticonformisti, hippies, femministe arrabbiate, vegani militanti e “urban farmers” (cittadini che trasformano la propria casa in città in una piccola fattoria allevando polli e tacchini nei giardini e nei cortili). Questa composita galassia anticonformista è scesa in campo dopo le elezioni presidenziali non solo per protestare contro l’elezione di Donald Trump ma per sottolineare il suo disprezzo per l’altra metà” della città, quella razzista, segregazionista e tradizionalista. Nella notte del 12 novembre i manifestanti di “Portlandia” si sono così abbandonati a violenze e devastazioni: 71 sono stati arrestati e tra questi l’età media era di 25 anni. Uno di loro, un giovane nero, è finito in ospedale colpito con una revolverata da uno sconosciuto. Un manifestante alla domanda di un giornalista sul perché era sceso in piazza ha risposto: “sono qui perché sono spaventato a morte, sono omosessuale e non sono contento di come vanno le cose”.
Uno dei motivi per cui molti giovani a Portland non sono contenti di “come vanno le cose” è la cosiddetta “gentrification” e cioè la pratica sempre più diffusa da parte dei costruttori di acquistare case nel centro storico, ristrutturarle e metterle in vendita o in affitto a prezzi altissimi. La “gentrification” sta progressivamente cambiando il contesto sociale del centro di Portland espellendone giovani artisti, studenti, neri e tutta quella congerie sociale anticonformista e libertaria che per anni l’aveva reso caratteristico e unico.
(Gregory Robert McKelvey, leader delle proteste a Portland. Foto Portland Tribune)
Uno dei leader della protesta, Gregory Robert McKelvey, uno studente di giurisprudenza molto noto in città in quanto esponente di primo piano del movimento “Don’t Shoot Portland” (uno dei tanti movimenti nati per contestare le violenze della polizia), ha dichiarato dopo le manifestazioni e le violenze che “gli adesivi di protesta sul parabrezza non bastano più, i post su Facebook non bastano più, non sono abbastanza”, e ha presentato alle autorità un manifesto di richieste che vanno dalla tutela dell’acqua pubblica al blocco dei fitti, dal no al carbone al salario minimo garantito, dal riconoscimento del passato razzista di Portland alla fine delle brutalità della polizia.
Mentre nell’altra metà della città un gruppo di studenti bianchi del liceo veniva sospeso dalle autorità scolastiche per aver gridato agli studenti di colore alla vigilia delle elezioni “tra qualche giorno se tutto va bene dovrete fare le valigie”, le violenze diffuse sono continuate quasi a sottolineare che il malessere interno di Portland è destinato a durare, forse indipendentemente dalle prossime mosse del nuovo presidente Donald Trump. Un malessere che non è congiunturale ma che affonda le proprie radici in un groviglio di contraddizioni che la società americana non è mai riuscita a sciogliere.
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Torta al rabarbaro e mele: la ricetta golosa
Ecco come si prepara la torta rabarbaro e mele con la ricetta facile e golosa [...]
Autore: Alyssa | Categoria: Salute e Alimentazione | Voti: 1 - Commenti: 0
Fonte: http://www.blog-news.it/metapost/torta-rabarbaro-mele-ricetta-golosa
Roma, il fratello di Marra promosso al Turismo. FdI: “E’ conflitto d’interessi”
Il ruolo di Raffaele Marra, arbitro-giocatore del grande risiko dei dirigenti in Campidoglio, con tanto di possibile conflitto di interessi nella promozione del fratello Renato al Turismo. Ma anche la mancata comparazione dei curriculum, la violazione della presunzione d’innocenza, carenze varie nel nuovo meccanismo ad interpello. La rotazione dei capi dipartimento del Comune di Roma … [...]
Autore: voxpopuli | Categoria: Politica | Voti: 4 - Commenti: 0
Fonte: http://www.blog-news.it/metapost/roma-fratello-marra-promosso-turismo-fdi-ldquo-rsquo-conflitto-rsquo-interessi-rdquo
Pensando alla morte di Frida Kahlo: analisi completa dell’opera
Pensando alla morte di Frida Kahlo: analisi completa dell’opera
ArteWorld.
Andiamo a scoprire tutto quello che riguarda un importante lavoro di Frida Kahlo, la quale è stata una delle più importanti artiste del Novecento. Frida, nella sua lunga carriera ha realizzato un gran numero di capolavori, e tra i più importanti, abbiamo già studiato il Ritratto di Alicia Galant e l‘Autoritratto con Bonito. Oggi, proseguiremo nello studio dei quadri di Frida attraverso l’analisi del lavoro intitolato Pensando alla morte.
Qui potrete leggere tutte le informazioni riguardanti questo Pensando alla morte di Frida Kahlo: storia dell’opera, analisi, data di realizzazione, dimensioni e luogo di conservazione.
Data di realizzazione: 1943
Dimensioni: 44,5 x 37 cm
Dove si trova: Collezione di Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Frida realizzò quest’olio su tela nel periodo in cui si trovava costretta a rimanere a letto a causa delle sue precarie condizioni di salute.
La sua triste condizione la portò ad avere non solo conseguenze piano fisico, ma anche su anche quello mentale, inducendola a vedere la morte come un concetto irremovibile e sempre presente nella sua mente.
La morte era simboleggiata da un tradizionale teschio, con alle spalle, delle ossa disposte ad incrocio; si può notare il piccolo disegno del teschio sulla fronte della protagonista, all’interno di una piccola finestra rotonda.
Secondo la tradizione messicana, la morte ha due significati nello stesso tempo: vuol dire sia rinascita che vita.
In questo autoritratto, la protagonista ed il piccolo simbolo della morte, si trovano stagliatati su un piccolo ambiente, con diversi rami spinosi: questa disposizione non è casuale, anzi; l’ambiente alle loro spalle si rifà all’antica mitologia delle culture pre-ispaniche, indicando la rinascita subito dopo la morte.
In sintesi, per Frida, la morte, vista come un elemento sempre presente, indica una sorta di transizione, o di trasformazione della vita stessa in qualcosa di differente e soprattutto non come la fine di tutto.
I colori utilizzati sulla tela sono molto accesi e decisi: lo sfondo naturale alle spalle di Frida, pieno di ramoscelli e foglie (oltre ad avere ad avere un significato mitologico indicato in precedenza) simboleggia anche la vita, in netto contrasto con il tema principale dell’opera.
Frida non indossa orecchini o collane, proprio come accade anche nell’Autoritratto con Bonito, lasciando intendere che il tema dell’opera è funesto.
Pensando alla morte di Frida Kahlo: analisi completa dell’opera
ArteWorld.
Fonte: http://www.arteworld.it/pensando-alla-morte-frida-kahlo-analisi/
Frida Kahlo e le sue opere più belle in mostra a Bologna
Il 19 novembre a Bologna apre i battenti una nuova mostra su Frida Kahlo, che resterà aperta al pubblico fino alla fine di marzo 2017: la pittrice messicana rivive nelle sale di Palazzo Albergati grazie ad Arthemisia.
Quello proposto nella mostra è un viaggio nella storia di Frida artista e Frida donna, due aspetti inscindibili nella vita di Frida Kahlo: un viaggio attraverso le sue opere, ritratti e autoritratti, a cui fanno da cornice gli uomini che lei ha amato. Uno su tutti, il pittore e muralista Diego Rivera, grande amore della pittrice messicana, che per primo l’avvicinò all’arte.
I diversi aspetti della poetica di Frida Kahlo, legata soprattutto al contesto politico messicano, si sviluppano lungo un’esistenza travagliata: dagli autoritratti fino al rifiuto di un corpo martoriato da un incidente, dal tormento per una maternità mancata fino alle esperienze con il Surrealismo francese, mai prima di lei una donna era riuscita ad affermarsi nel mondo dell’arte con tanta prepotenza.
Info:
“La collezione Gelman: arte messicana del XX secolo.
Frida Kahlo, Diego Rivera, Rufino Tamayo, Marìa Izquìerdo, David Alfaro Siqueiros, Angel Zàrraga”
Palazzo Albergati
Via Saragozza 28, Bologna
19 novembre 2016 – 26 marzo 2017
Tutti i giorni dalle 10.00 alle 20.00
Biglietto: 15 €
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Fonte: http://www.veraclasse.it/mostre/frida-kahlo-le-sue-opere-mostra-bologna_39216/
COP 22: perché l’Africa può (e deve) fare la sua parte
di Rocco Bellantone
@RoccoBellantone
Costretta a subire per secoli le conseguenze nefaste delle scelte sbagliate dell’Occidente, per la prima volta a Marrakech l’Africa sta avendo l’opportunità di prendere in mano il proprio destino. La COP22, la ventiduesima Conferenza delle Parti della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC, United Nations Framework Convention on Climate Change), in programma nella città marocchina dall’8 al 18 novembre, non è infatti solo una delle tappe del percorso intrapreso dalla comunità internazionale per riparare agli errori che hanno portato nel 2016 l’innalzamento del riscaldamento globale al livello record di +1,2 gradi rispetto all’era preindustriale (dati dell’Organizzazione meteorologica mondiale, ndr).
Per l’intero continente africano Marrakech rappresenta infatti un banco di prova ancora più importante, una verifica a trecentosessanta gradi della sua capacità di assumersi la responsabilità di affrontare una sfida come quella rappresentata dai cambiamenti climatici non più da una posizione subalterna ma, si spera, di parità rispetto agli altri partner internazionali. Che sia il Marocco a guidare questo processo non è un caso.
Alla vigilia di questo appuntamento il Regno di Mohammed VI ha dovuto far fronte alle proteste di piazza seguite alla morte di un pescivendolo rimasto ucciso nella città settentrionale di Al Hoceima in una situazione da chiarire all’interno di un autocompattatore di rifiuti, mentre tentava di recuperare il pesce che gli era stato confiscato dalle autorità locali. Il caso, su cui sono state avviate delle indagini per fare luce sui responsabili, ha spinto migliaia di persone a partecipare a manifestazioni e scioperi. È un segnale di disagio sociale che però non può oscurare quanto di buono è stato fatto dal Regno marocchino negli ultimi anni per permettere al Paese di superare indenne quelle primavere arabe che altrove hanno portato a guerre civili e violenze di massa. E la COP22, oltre i risultati che si attendono sul piano delle politiche ambientali, serve anche per rafforzare il ruolo di questo Paese come ponte di stabilità tra l’Occidente e l’Europa da una parte e l’Africa dall’altra.
Ostacoli e obiettivi
Partendo da questi presupposti, i lavori di Marrakech si sono aperti lo scorso 8 novembre con l’obiettivo di dare concretezza all’accordo che era stato raggiunto il 12 dicembre 2015 alla COP21 di Parigi. Entrata in vigore il 4 novembre, l’intesa prevede il contenimento dell’aumento della temperatura media del pianeta al di sotto della soglia di 2 gradi rispetto all’era preindustriale. Il traguardo successivo da porsi sarà di abbassare ulteriormente il livello a 1,5 gradi.
Per dodici giorni Marrakech sarà un enorme e dinamico laboratorio pensato per dare ordine e progettualità a idee e proposte di soluzioni, sviluppato in un’area estesa su 25 ettari di terreno, realizzata al costo di 90 milioni di euro. AI lavori partecipano 30.000 persone, 8.000 rappresentanti di oltre 3.000 ONG attive in ogni angolo del mondo e 1.500 giornalisti. Sono inoltre presenti le rappresentanze diplomatiche di 196 Paesi e più di 100 tra capi di Stato e di governo.
(Salaheddine Mezouar, ministro degli Affari Esteri del Marocco e presidente di COP22)
Da oggi, martedì 15 novembre, dalle buone intenzioni si inizia a passare ai fatti con il primo incontro in cui verrà definita la strategia attuativa delineata a Parigi, ratificata nel settembre scorso a New York da 60 Stati. È da questa riunione che inizia la partita vera e propria con l’individuazione degli strumenti necessari che dovranno consentire ai Paesi che subiscono maggiormente le conseguenze dei cambiamenti climatici, quelli dell’Africa in testa, di affrontare il problema. Tradotto, significa erogazione di finanziamenti e trasferimento di nuove tecnologie e know how da parte dei Paesi più sviluppati.
È un passaggio fondamentale che però può incanalarsi nella direzione sperata solo se di pari passo si concretizzeranno altre azioni: dalla riduzione su scala globale di tutte quelle attività da cui derivano i principali incrementi delle emissioni di gas serra nell’atmosfera, a una generale diminuzione dello sfruttamento di fonti fossili (petrolio, gas e carbone in primis), fino all’avvio di politiche serie e strutturate per regolamentare i rapporti tra Paesi importatori e Paesi esportatori di risorse convenzionali e favorire lo sviluppo di risorse rinnovabili.
È una sfida che, come detto, chiama in causa direttamente l’Africa, sulle cui immense risorse di petrolio e gas le compagnie energetiche internazionali continuano a investire senza che però vi sia un ritorno in termini di miglioramento delle condizioni di vita per le popolazioni locali. Ottenere un cambio di passo in tal senso dai cinque Paesi africani che fanno parte dell’OPEC (Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio) – Algeria, Nigeria, Libia, Gabon e Angola – non sarà semplice, e non solo perché la Libia e buona parte della Nigeria sono minacciate da guerre e dal terrorismo jihadista. Per ottenere risultati concreti, facendo convergere verso gli stessi obiettivi da una parte innovazione green e nuovi modelli di business ecosostenibili e dall’altra gli interessi del mercato e un cambio radicale dei modelli di consumo, servirà arrivare a un compromesso con i colossi energetici (non solo occidentali ma anche russi e cinesi) e monitorare gli enormi flussi finanziari (almeno 100 miliardi di dollari all’anno, fino al 2020) che la comunità internazionale intende destinare al Sud del mondo per tagliare i traguardi fissati dalla COP21.
Le iniziative dell’Africa e il ruolo del Marocco
L’Africa, che secondo le stime dell’UNEP (Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente) partecipa solo al 4% della produzione di emissioni di CO2 a livello globale, subendone però costi quantificabili in cifre che oscillano tra i 7 e i 15 miliardi di dollari all’anno, è pronta a fare la sua parte. La Banca Africana di Sviluppo (ADB), in base a quanto stabilito dal suo Nuovo Piano per l’Energia, si è impegnata a triplicare i finanziamenti destinati al contrasto ai cambiamenti climatici (circa 5 miliardi all’anno) e a portare fino a 12 miliardi entro il 2020 il valore degli investimenti nelle energie rinnovabili.
Il Marocco non starà a guardare, come dimostra il suo piano avviato da anni e mirato a sviluppare le energie rinnovabili per sostituirle con la produzione energetica tradizionale, e come è stato ribadito in apertura della COP22 da Salaheddine Mezouar, ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione marocchino e presidente della Conferenza. “Lo svolgimento della COP22 in Africa – ha dichiarato -riflette l’impegno di un intero continente nel contribuire agli sforzi globali a sostegno delle politiche per la salvaguardia del pianeta e la volontà di prendere in mano il proprio destino per ridurre le proprie vulnerabilità e migliorare le proprie capacità. È nostro dovere essere all’altezza di questa sfida globale e non deludere le aspettative delle popolazioni più vulnerabili. Un proverbio africano dice che ‘Il sole non ignora un Paese perché è piccolo’”.
Le difficoltà non mancano, così come sono in parte fondati i dubbi di chi teme che questa conferenza si possa concludere con tante promesse e poche iniziative concrete. Ma all’Africa finalmente è stata data la chance di avere un ruolo da protagonista: se non verrà lasciata sola, potrà dimostrare che tutto ciò ha avuto un senso.
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Fonte: http://www.lookoutnews.it/cop-22-marocco-marrakech/
Come gli Etf ma più economici: i fondi indicizzati sono da rivalutare
Autore: money | Categoria: Economia | Voti: 1 - Commenti: 0
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Orlando: 'Grazie alla riforma costituzionale si potranno approvare le leggi più in fretta'
Intervenendo a Porta a Porta per parlare delle ragioni del Sì, il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha sostenuto che se il bicameralismo perfetto fosse stato abolito anni fa, probabilmente la storia del nostro Paese ora sarebbe diversa. [...]
Autore: votAntonio | Categoria: Politica | Voti: 3 - Commenti: 0
Fonte: http://www.blog-news.it/metapost/orlando-grazie-alla-riforma-costituzionale-potranno-approvare-leggi-fretta
Trump e il muro con il Messico: tutto quello che c’è da sapere
di Luciano Tirinnanzi
@luciotirinnanzi
Dopo la sbornia elettorale, negli Stati Uniti le prime polemiche sul presidente in pectore Donald J. Trump sono relative alla questione dei migranti e della costruzione del muro al confine con il Messico. Materia delicata e di ampio respiro, che intercetta più questioni.
Partiamo da alcuni dati certi. Ogni anno oltre 500 milioni di persone attraversano i due soli confini terrestri degli Stati Uniti, Canada e Messico e, di questi, circa 300 milioni non sono cittadini statunitensi. Questo numero corrisponde a circa 118 milioni di veicoli e 22,5 milioni di cargo che ogni anno percorrono le strade americane.
Per quanto concerne il confine USA-Messico, quello dove l’apprensione per la sicurezza è maggiore, si stima che la quota di movimenti illegali sia del 90% rispetto agli stessi movimenti al confine canadese. Da qui l’impellenza di gestire meglio i valichi al confine meridionale. La maggior parte dell’attenzione delle forze dell’ordine è concentrata sull’attraversamento illegale degli immigrati irregolari che dal Messico raggiungono gli Stati meridionali degli USA. Una priorità nazionale, cui seguono il trasporto di droga e il trasporto di merci non regolari.
I numeri dei migranti messicani
Mentre gli immigrati irregolari totali provenienti da ogni parte del mondo negli Stati Uniti sono pari a 11,3 milioni, i messicani entrati irregolarmente nel Paese erano 6,5 milioni nel 2014. Quelli che vivono regolarmente sul suolo statunitense sono invece 33,5 milioni (quasi un quarto della popolazione messicana). Circa il 65% degli americani-messicani è nato negli USA, mentre il 18% è rappresentato da immigrazione non autorizzata. Ciò detto, a partire dal 2009 la tendenza all’immigrazione dal Messico verso gli Stati Uniti è in costante calo e nel 2015 è scesa a 5,6 milioni.
Il 60% della presenza dei messicani in America è sparso in soli sei Stati: California, Florida, Texas, Illinois, New York, New Jersey. I messicani rappresentano il 5,1% della forza lavoro complessiva statunitense (somma di occupati e disoccupati). L’età media è molto giovane, circa 25 anni d’età. Le politiche che riguardano l’immigrazione non sono un tema molto percepito dalla comunità messicana in America: la priorità è piuttosto l’assicurazione sanitaria, di cui beneficia appena il 29% delle donne di origine messicana (percentuale che cala molto per gli uomini).
Il problema del narcotraffico
La stessa questione del muro è un problema relativo per i messicani, mentre rappresenta una questione di primaria importanza per il governo statunitense e, in parte, anche per quello messicano. Questo perché il confine Messico-Stati Uniti è la porta d’accesso non solo per l’immigrazione dei latinos dall’intero continente americano, ma anche perché è la via di accesso preferenziale della droga destinata al mercato di Stati Uniti e Canada. Colombia e Messico, in questo senso, hanno pressoché il monopolio del traffico di cocaina, eroina, marijuana, ecstasy e metanfetamine.
Queste droghe vengono trafficate dai cosiddetti “cartelli” ovvero una sorta di consorzi criminali che gestiscono l’intero sistema, dalla produzione allo smercio degli stupefacenti, attraverso metodi brutali e grazie alla presenza militarizzata in regioni dove lo Stato non riesce a penetrare. I ricavi dal settore consentono ai cartelli utili incalcolabili, con un mercato d’affari miliardario.
Per esportare le droghe dal Messico al territorio americano, i narcotrafficanti utilizzano i più disparati metodi, spesso creativi: dagli aerei biplano ai sommergibili, dalle catapulte ai droni, dal camuffamento nei cibi o nei giocattoli, fino ai corrieri che ingoiano la droga e la trasportano nello stomaco oltreconfine.
Ma i veri problemi sono il confine naturale del fiume Rio Grande tra New Mexico e Texas, difficilmente pattugliabile, e soprattutto i tunnel scavati sotto le recinzioni, utilizzati tanto dagli immigrati quanto dai narcotrafficanti, che li gestiscono direttamente e ne costruiscono continuamente di nuovi. Questo sistema ha generato anche il fenomeno dei “coyotes”, vere e proprie guide in grado di aiutare i migranti a evitare le zone a rischio e sfuggire a telecamere e pattugliamenti (un fenomeno paradossalmente cresciuto con il progressivo aumento dei controlli).
Il muro al confine, da Clinton a Bush
Al fine di arginare l’immigrazione irregolare e il traffico di stupefacenti, gli Stati Uniti hanno attivato numerose iniziative volte alla repressione del fenomeno già a partire dagli anni Sessanta, quando il numero di stranieri fermati dalla polizia di frontiera era nell’ordine delle centomila unità. Già nel 1977, però, la cifra salì a un milione; da allora e sino al 2007 non si è mai avuta una diminuzione del fenomeno, con una media dei fermati di origine messicana di 7 su 8.
Il potenziamento dei pattugliamenti ha portato negli anni Novanta a un cambio di strategia: a partire dal 1993 per volere dell’Amministrazione Clinton ha preso vita un’operazione nella zona di El Paso, in Texas, soprannominata Hold the Line, che ha portato già l’anno seguente alla costruzione di un muro anti-immigrazione lungo tutta la linea di confine, che comprende quattro stati: California, Arizona, New Mexico e Texas.
La linea di confine Stati Uniti-Messico complessivamente si dipana poco oltre i 3.000 chilometri, mentre il muro voluto da Bill Clinton oggi non raggiunge i mille chilometri di ampiezza: attualmente si sviluppa lungo 930 km non consecutivi, intervallati da confini naturali, filo spinato e zone dove sono presenti solamente recinzioni blande e sensori elettrici. A pattugliare il confine è la polizia di frontiera, sovvenzionata attraverso i progetti Gatekeeper (California), Hold-the-Line (Texas) e Safeguard (Arizona).
Da allora, l’esigenza di un efficace controllo di frontiera ha assunto un’importanza sempre più cruciale, divenendo un problema di sicurezza nazionale in seguito agli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 (nonostante, come noto, i terroristi in quel caso fossero entrati negli USA con i visti regolari). In questo senso va letta anche l’operazione Streamline, iniziata nel 2005 sotto la presidenza di G.W. Bush, che ha reso obbligatoria la detenzione delle persone accusate di recidiva nell’ingresso illegale sul territorio americano. Streamline ha suscitato molte polemiche per le accuse di aver incrementato la popolazione carceraria degli Stati Uniti e aver portato a una criminalizzazione generalizzata dei migranti.
Nel 2006, il Secure Fence Act ha poi autorizzato l’espansione del muro per altri 1.100 km in Arizona e California, e innalzato le forze per il pattugliamento dei confini nazionali a un totale di quasi 20mila agenti. I punti critici sono le città di confine: dal lato messicano Tijuana, Nogales, Juarez e Nuevo Laredo, e dal lato americano San Diego (California), Tucson (Arizona), El Paso e Laredo (Texas).
La sfida di Trump
Con l’elezione a presidente degli Stati Uniti di Donald J. Trump nel 2016 la questione sembra essere divenuta prioritaria per il governo federale, visto che il repubblicano in campagna elettorale ha promesso di portare a termine il mastodontico progetto del muro. Trump sostiene che il costo totale dell’opera si aggirerà tra i 10 e i 12 miliardi di dollari per coprire la restante parte (poco meno di 2.000 km) che manca per sigillare interamente la frontiera. Ma le stime di numerosi ingegneri parlano di costi ben più alti, visto che i primi 930 km già in piedi complessivamente sono costati al governo più di 7 miliardi di dollari. Un recente studio condotto dal Washington Post ha stimato il costo definitivo in circa 25 miliardi.
(Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump)
In definitiva, però, il punto nodale non è se il muro sarà o meno completato, piuttosto quale impatto deterrente esso possa costituire per le migrazioni e il narcoterrorismo in entrata. E, al contempo, quale impatto avrà sui rapporti bilaterali con il secondo partner commerciale degli Stati Uniti, cioè appunto il Messico. Valgano per tutti questi interrogativi le parole di Juan José Guerra Abud, ambasciatore del Messico in Italia: “Chi si oppone all’apertura e agli scambi tra questi mercati non sta comprendendo dove stia andando l’economia mondiale. La soluzione non è chiudere le frontiere e fermare gli scambi, ma svilupparli e generarne di nuovi”.
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Fonte: http://www.lookoutnews.it/usa-messico-muro-trump/
Terrorismo: arrestato in Sudan reclutatore Isis in Italia
La lotta al terrorismo dei combattenti del nuovo Stato Islamico avrebbe fatto segnare la cattura del tunisino Moez Fezzani, conosciuto anche come Abu Nassim, classe 1969. Una notizia che interessa piuttosto da vicino il nostro Paese, dato che l’uomo era considerato il presunto reclutatore dell’Isis in Italia. Arrestato e rimasto in carcere per due anni in Italia, Abu Nassim è stato poi assolto nel [...]
Autore: Asia84 | Categoria: Esteri | Voti: 1 - Commenti: 0
Fonte: http://www.blog-news.it/metapost/terrorismo-arrestato-sudan-reclutatore-isis-italia
Una bella favola sul referendum (scritta da me medesimo)
C’era una volta un paese ricco d’arte e di storia. Che a cagione di sue misteriose deformazioni aveva generato una immensa classe di cittadini che mai aveva svolto un lavoro come quelli che si insegnano sui sussidiari: né fabbro né ingegnere, né medico né falegname. Terminata che avevano la scuola, costoro avevano subito praticato il mestiere di “politici”. Di politica da sempre vivevano e avevano [...]
Autore: Tisbe | Categoria: Politica | Voti: 3 - Commenti: 0
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Meteo italia. Maltempo in arrivo dal prossimo week-end
Una profonda saccatura scenderà di latitudine nel corso del prossimo weekend, portandosi verso l'Europa centrale con il suo carico di aria artica marittima L'affondo perturbato si estenderà fin verso il Mediterraneo, controbilanciato da un intenso richiamo di umide correnti di Libeccio sul nostro Paese [...]
Autore: prometeo | Categoria: Cronaca | Voti: 1 - Commenti: 0
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