Industria 4.0 - Shutterstocl |
Fonte: http://www.gravita-zero.org/2016/10/ibm-business-connect-perche-linternet.html
Industria 4.0 - Shutterstocl |
Big Data - Shutterstock |
di Alfredo Mantici
Nonostante il sostegno della comunità internazionale, il Governo di Accordo Nazionale di Fayez al Serraj che dallo scorso mese di marzo tenta di riportare un minimo di ordine nel caos libico appare sempre più in crisi, inadeguato e debole. Dopo il colpo di stato del 15 ottobre, le milizie islamiste fedeli a quello che potremmo definire il “governo autonomo” di Tripoli retto da Khalifa Ghwell, fomentate dalla massima autorità religiosa libica ossia il gran Mufti della Capitale, hanno preso il controllo del Rixos Hotel, sede dell’esecutivo Serraj, e di altri palazzi governativi. Da allora, la situazione in Libia, per quanto riguarda le prospettive di pacificazione del Paese, è tornata in alto mare.
Durante il golpe il premier Serraj si trovava a Tunisi, dove si era riunito con i suoi più stretti collaboratori per tentare di elaborare una proposta politica in grado di consentirgli di formare un esecutivo e di riportare un minimo di stabilità nel Paese. Stando a quanto scrive Libya Herald, il premier del Governo di Accordo Nazionale è rientrato a Tripoli solo oggi, martedì 18 ottobre, poiché fino a ieri le condizioni di sicurezza nella capitale non gli avevano permesso nemmeno di accedere alla base navale di Abu Sitta, bombardata con razzi dalle milizie islamiste fedeli al cosiddetto parlamento di Tripoli e allo stesso Ghwell, che ora si proclama capo del “Governo di Salvezza Nazionale”.
Nelle ore successive all’assalto degli edifici istituzionali, Ghwell ha dichiarato che “Il Consiglio Presidenziale (quello che Serraj chiama “Governo di Accordo Nazionale”, ndr) ha avuto molte possibilità di formare un governo, ma ha fallito trasformandosi in un esecutivo illegale”. Il leader golpista ha ora intenzione di mettere in piedi una nuova amministrazione, formata da rappresentanti del suo esecutivo e da esponenti del parlamento di Tobruk (fino ad ora rivale del parlamento di Tripoli) e ha dichiarato di aver già preso contatti con il suo “collega” di Tobruk, l’altro primo ministro Abdullah Al Thinni.
Si tratta di una mossa molto scaltra in quanto il parlamento di Tobruk è schierato con il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica le cui truppe hanno assunto il controllo delle principali installazioni petrolifere libiche nelle ultime settimane e godono dell’aperto sostegno egiziano nonché del supporto militare francese. È stata proprio l’incapacità del premier Serraj di raggiungere un accordo con Al Thinni e con Haftar, infatti, ad allontanare le prospettive della formazione di un governo unitario e credibile. Così, la mossa di Ghwell scompiglia tutte le carte in tavola e rende la posizione di Serraj ancora più precaria, nonostante il sostegno ricevuto sinora dalle Nazioni Unite.
L’inviato speciale in Libia per l’ONU, Martin Kobler, si è affrettato a condannare il golpe del 15 ottobre affermando che “quest’azione è destinata a essere fonte di ulteriore disordine e insicurezza e deve finire per garantire la salvezza del popolo libico”. Disordine e insicurezza regnano però sovrani in Libia, mentre Al Serraj dal suo esilio a Tunisi si è appellato alle milizie che ancora gli restano fedeli affinché “mettano in carcere tutti quelli che hanno cospirato per il golpe e tutti coloro che tramano per costituire un governo parallelo”. Un appello che ha scatenato alcuni isolati scontri nelle strade della capitale ma che è sostanzialmente destinato a cadere nel vuoto, visto che le milizie fedeli al suo governo non ricevono la paga da sei mesi e sembrano voler restare alla finestra, per sfruttare eventualmente la nuova situazione e possibilmente cambiare bandiera.
L’Italia, che finora ha sostenuto il governo di Serraj e che con la cosiddetta “Operazione Ippocrate” ha inviato un contingente di medici, infermieri e soldati in Libia, com’era prevedibile (e come era stato previsto da Lookout News) si trova ora in una posizione estremamente delicata. Perché un conto è inviare aiuti umanitari a un governo stabile e legittimo, un altro è schierarsi con una delle fazioni che si affrontano in un conflitto civile. Roma ha puntato molto, forse troppo, su Fayez Al Serraj, così ora ci troviamo alleati di un esecutivo che rischia di trasformarsi rapidamente in un governo in esilio in Tunisia.
Intanto, l’ISIS è ancora presente a Sirte, dove i jet americani hanno compiuto negli ultimi tre giorni 36 incursioni a sostegno delle milizie di Misurata che da mesi tentano di espellere le forze del Califfato dalla loro ultima roccaforte libica. Anche di fronte a ciò, Tripoli e Tobruk intrecciano manovre politico-militari miranti a eliminare il governo evanescente che l’Italia sostiene.
Forse è giunto il momento per il governo italiano di riflettere sul nostro impegno in Libia con più realismo e pragmatismo, evitando che nostri contingenti si trovino d’ora in avanti al centro di un ginepraio incontrollabile e siano considerati non più come un sostegno per tutto il popolo libico (com’era nelle intenzioni che hanno portato all’avvio della “Operazione Ippocrate”), ma sostenitori di una delle parti in causa. Con le conseguenze che purtroppo è facile immaginare, nel ricordo di quanto è successo ai nostri soldati in Libano negli anni Ottanta, e in Somalia negli anni Novanta.
L'articolo Libia, una poltrona per tre sembra essere il primo su .
di Luciano Tirinnanzi
@luciotirinnanzi
“L’ultima ora non verrà fino a quando i Romani non giungeranno ad al-Amaq o Dabiq. Un esercito composto dai migliori (soldati) dei popoli della terra in quel momento giungerà da Medina (per contrastarli). Quando si disporranno in fila, i romani diranno: non state tra noi e quelli (i musulmani) che hanno preso prigionieri. Lasciateci combattere insieme a loro. Ma i musulmani diranno: No, per Allah, non staremo mai tra voi e i nostri fratelli che volete combattere. Loro (i musulmani) combatteranno e un terzo dell’esercito fuggirà, cosa che Allah non potrà mai perdonare. Un altro terzo, che sarà costituito da eccellenti martiri agli occhi di Allah, sarà ucciso e il restante terzo, che non sarà messo alla prova, vincerà e loro saranno i conquistatori di Costantinopoli”.
Sono queste le parole del famoso Hadith (gli aneddoti sulla vita del Profeta Maometto che fanno parte della Sunna, testo sacro dell’Islam dopo il Corano) che ha offerto ai jihadisti un senso escatologico alla guerra da loro combattuta in Siria e in Iraq, preconizzando un imminente “Armageddon”, ossia un giudizio finale, proprio intorno alla cittadina siriana di Dabiq. Così importante che il magazine della propaganda del Califfato ne ha preso ufficialmente il nome, dopo che gli uomini di Al Baghdadi hanno conquistato questo sito.
Secondo la profezia, dunque, Dabiq è il luogo prescelto per il ritorno del Mahdi (il Messia). In questo luogo Gesù – sì, proprio Gesù Cristo, poiché il figlio di Maria è riconosciuto come profeta anche dall’Islam – scenderà nuovamente sulla terra e porterà la vittoria su coloro che si oppongono alla Sharia, cioè i “Romani”, intesi qui come occidentali, crociati, infedeli.
L’importanza di questa profezia per lo Stato Islamico è divenuta evidente per la prima volta quando il boia del Califfato divenuto famoso col nome di Jihadi John, rivelatosi poi un foreign fighter britannico, in uno dei numerosi video della loro truculenta propaganda annunciava entusiasta l’avvenuta decapitazione dell’americano Peter Kassig, nel novembre del 2014. “Eccoci, bruciando il primo crociato americano a Dabiq, in trepidante attesa che arrivi il resto dei vostri eserciti” aveva detto.
Abu Musab al-Zaraqawi, ispiratore del futuro Stato Islamico e già leader Al-Qaeda in Iraq (è stato ucciso da un attacco aereo americano il 7 giugno 2006), era solito citare queste parole: “La scintilla è stata accesa qui in Iraq, e il suo calore continuerà a intensificarsi fino a che non brucerà completamente gli eserciti crociati a Dabiq”. Lo disse al tempo dell’invasione americana, mentre si adoperava per costituire la resistenza islamista che anni dopo avrebbe partorito proprio i dirigenti dell’attuale Stato Islamico.
Nell’agosto del 2014 il Califfato è in piena fase di espansione ed entra anche a Dabiq, dove distrugge il santuario di Sulayman ibn Abd al-Malik, un Califfo Omayyade che regnò nel 700 d.C., corroborando così la profezia contenuta nello Hadith e dando ulteriore lustro alla propria campagna militare. Questo nonostante Dabiq non abbia alcuna particolare rilevanza militare, essendo poco più che un villaggio nel nord-est della Siria, a soli dieci chilometri dal confine con la Turchia e a poche decine di distanza da Aleppo.
Tanto è vero che il 16 ottobre 2016 un gruppo di turcomanni siriani appoggiati dalla Turchia ha riconquistato Dabiq quasi senza colpo ferire: un comandante dell’opposizione siriana ha definito infatti “minima” la resistenza opposta dagli uomini di Al Baghdadi. Contrariamente al solito modus operandi (spesso è stato chiesto loro di difendere fino all’ultimo uomo le proprie roccaforti), dunque, i miliziani si sono ritirati spontaneamente.
Il dato, vista l’importanza simbolica del luogo, è solo all’apparenza inatteso. Invece, questa scelta è ben comprensibile se si pensa all’attuale strategia dello Stato Islamico, che nel perdere terreno è costretto a farsi pragmatico, a serrare i ranghi e a salvare i propri uomini per non dover subire ulteriori cocenti sconfitte. Secondo le fonti sul campo, i miliziani di stanza a Dabiq si stanno ora dirigendo più a sud, ad Al Bab, anch’essa non lontana da Aleppo ma decisamente più importante per la strategia di guerra califfale, poiché la città – in mano allo Stato Islamico – si trova in una posizione strategica e conduce sia verso Aleppo sia verso Raqqa, l’ultima vera roccaforte rimasta al Califfato da quando Mosul è cinta d’assedio.
Ankara, che da mesi ha rotto gli indugi ed è penetrata tanto in Siria quanto in Iraq, ha dichiarato per mezzo del ministro degli Esteri, Mevlut Cavusoglu, che “Il prossimo obiettivo è naturalmente Al Bab” e ha confermato che ormai Dabiq è “completamente sotto controllo”. Chi plaude alle ripetute sconfitte dello Stato Islamico non deve però rallegrarsi circa il futuro della guerra siriana poiché, dove si elimina un esercito o una milizia, ecco che ne riappare subito un altro. Sostituendo una forza occupante con un’altra, come i turcomanni al posto dell’ISIS, non farà della Siria un luogo più sicuro né il fatto ci avvicina alla fine delle ostilità.
Se si vuol credere ancora alle profezie, un altro Hadith afferma che l’Armageddon cui fa riferimento la profezia di Dabiq non si avrà prima che sia giunto il dodicesimo Califfo. Il che, se vogliamo contare anche Abu Bakr Al Baghdadi, ci pone in un momento storico di passaggio che è più o meno a cavallo tra il Settimo e l’Ottavo Califfo.
Quanti Califfi ancora dovranno emergere dal Medio Oriente non è dato sapere ma è probabile che, morto Al Baghdadi e sconfitto il suo Stato Islamico, se non saranno spente le fiamme della guerra riemergeranno nuove e più gravi minacce alla pace, secondo uno schema non dissimile da quello già proposto dall’ISIS nel 2014. Ed ecco che già il leader di Jabhat Fateh Al Sham (ex Fronte Al Nusra), Abu Mohammed Al Julani, non sembra lontano dal volersi candidare a prossimo “Califfo di tutti i musulmani”.
L'articolo Dabiq, la profezia e la sconfitta dello Stato Islamico sembra essere il primo su .
La prima ricercatrice INFN Catalina Curceanu |
di Alfredo Mantici
Per tradizione il presidente degli Stati Uniti nell’ultimo anno del suo mandato viene definito – senza intenti dispregiativi – una “Lame Duck”, un’“anatra zoppa”, in quanto la sua capacità di intervento sulle principali questioni di politica interna ed estera viene ritenuta limitata a causa dell’imminenza fisiologica dell’abbandono del potere.
Barack Obama, a poche settimane dalla scadenza del suo mandato, sembra intenzionato a smentire questa tradizione, mostrando un attivismo di tutto rispetto non soltanto in politica estera – il suo segretario di stato John Kerry è impegnato in serrati colloqui con la sua controparte russa sulla questione siriana – ma anche in politica interna e, in particolare, a sostegno della campagna presidenziale della sua collega di partito Hillary Clinton.
Non soltanto il presidente e sua moglie Michelle non si risparmiano quando si tratta di intervenire pubblicamente a favore di Hillary, ma il capo della Casa Bianca minaccia addirittura di dichiarare cyber guerra alla Russia, colpevole di essere all’origine delle imbarazzanti rivelazioni pubblicate da Wikileaks, il sito di Julian Assange famoso per aver violato i sistemi informatici di molti governi, che il 12 ottobre scorso ha messo in rete migliaia di mail intercorse tra la candidata democratica e il capo della sua campagna elettorale, John Podestà. Si tratta di una corrispondenza indubbiamente scomoda perché rivela, tra l’altro, che Hillary Clinton ritiene che l’Arabia Saudita – che finanzia generosamente la sua campagna – e il Qatar siano responsabili del sostegno economico ai jihadisti dell’ISIS.
La reazione dell’Amministrazione Obama a queste rivelazioni è stata furiosa e molto più vivace di quella dei diretti interessati. Fonti della Casa Bianca, pur senza fornire alcuna prova, hanno immediatamente dichiarato che il presidente è convinto che dietro Assange – da anni rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra per sfuggire a una richiesta di estradizione svedese e americana – ci siano i servizi segreti russi e che gli hacker che hanno penetrato i sistemi informatici del Comitato Nazionale Democratico abbiano agito per ordine del Cremlino, intenzionato a intervenire direttamente nella campagna elettorale americana.
Per rispondere per le rime a questa asserita ingerenza russa negli affari interni americani, Obama avrebbe ordinato alla CIA di predisporre i piani per una intrusione informatica di “rappresaglia” nelle comunicazioni istituzionali di Mosca allo scopo di trovare spunti informativi in grado di “mettere in imbarazzo” Vladimir Putin e il suo governo. La notizia di questa “dichiarazione di guerra 2.0” è stata data il 14 ottobre dalla rete televisiva americana NBC che, citando anonimi funzionari dell’Agenzia di spionaggio statunitense, ha parlato di una “covert operation” decisa dalla Casa Bianca per contrastare le “nauseanti tattiche” del presidente russo.
Le stesse fonti hanno sottolineato che sulla questione non ci sarebbe consenso unanime ai vertici dell’Amministrazione Obama. Infatti, uno degli anonimi funzionari della CIA interpellati dalla NBC ha sostenuto che “mettere in imbarazzo Putin potrebbe essere difficile perché non c’è nulla che gli Stati Uniti possano fare senza provocare una inadeguata risposta russa. Per esempio se pubblichiamo i conti bancari di Vladimir Putin, che facciamo quando i russi rispondono rendendo pubblici i movimenti bancari del conto di Barack Obama?”.
Di fronte allo scoop della NBC, l’entourage del presidente americano non ha potuto che confermare le informazioni fatte filtrare dagli anonimi funzionari della CIA. Il vice presidente Joe Biden, intervistato il 14 ottobre nell’ambito del seguitissimo programma televisivo Meet the press ha dovuto ammettere la fondatezza delle rivelazioni sulla pianificazione di un attacco informatico ai danni del Cremlino, sostenendo che “stiamo mandando un messaggio a Putin, un messaggio che arriverà quando noi lo decideremo e nelle circostanze che garantiranno un suo forte impatto”.
Le reazioni russe alle nuove minacce della Casa Bianca sono state molto nette. Da un lato il portavoce del Cremlino, Dimitry Peskov, ha definito le accuse americane “un non senso”, aggiungendo che “ogni giorno migliaia di hacker tentano di penetrare i siti istituzionali della Russia, senza che per questo Mosca punti il dito contro gli Stati Uniti […] le minacce contro Mosca e contro il governo russo sono senza precedenti anche perché sono state confermate dal vice presidente degli Stati Uniti”.
Dall’altro lato, l’ambasciatore russo alle Nazioni Unite, Vitaly Churchin, si è detto preoccupato perché “la situazione (dei rapporti tra USA e Russia, ndr) è veramente cattiva, probabilmente la peggiore dal 1973 (ai tempi della guerra del Kippur, ndr)”.
Insomma, la situazione appare decisamente seria e merita almeno due considerazioni ambedue negative. La prima riguarda Obama, il quale decide di alzare il livello della tensione nelle relazioni internazionali non per seri motivi di difesa della stabilità globale, ma per sostenere la campagna elettorale del candidato del suo partito. La seconda si riferisce alla manifesta incapacità della sua Amministrazione di pianificare un’operazione clandestina della CIA senza che nel giro di ventiquattr’ore solerti “fonti anonime” non ne rivelino tutti i dettagli alla stampa. Quello della cyber guerra è pertanto probabile che passerà alla storia come l’ennesimo flop di un’Amministrazione che negli affari internazionali, negli ultimi otto anni, non ha certo brillato.
L'articolo Obama dichiara cyber war alla Russia sembra essere il primo su .