di Rocco Bellantone
@RoccoBellantone
Il governo etiope ha accusato Egitto ed Eritrea di essere dietro le proteste antigovernative che nelle ultime settimane hanno trascinato il Paese nel caos. Dopo aver proclamato lo stato d’emergenza per i prossimi sei mesi, l’esecutivo guidato dal primo ministro Haile Mariam Desalegn punta adesso il dito contro due dei suoi “nemici” storici, sostenendo che tanto Il Cairo quanto Asmara avrebbero fomentato le rivolte che dall’epicentro della regione centro-occidentale di Oromia si sono estese fino a nord nella regione di Amhara.
Getachew Redda, portavoce del governo di Addis Abeba, ha parlato di una “rinnovata minaccia proveniente da diverse direzioni”, mossa da “nemici esterni che sono determinati a distruggere l’intero Paese” e i “risultati ottenuti dall’Etiopia negli ultimi vent’anni”.
L’Etiopia dice che le autorità egiziane ed eritree avrebbero finanziato e sostenuto militarmente il Fronte di Liberazione Oromo (OLF), il movimento indipendentista al centro delle proteste portate avanti dal gruppo etnico degli Oromo (il più grande in Etiopia, con circa 24 milioni di persone, il 32% della popolazione nazionale), contro la decisione del governo centrale di espropriare le loro terre. Eppure queste accuse, al netto delle note tensioni tra i tre Paesi africani, sembrano essere state agitate appositamente dall’Etiopia per spostare l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi interni del Paese.
Le proteste
Lo scorso 2 ottobre, nella regione di Oromia i festeggiamenti per la fine della stagione delle piogge sono sfociati in violenti scontri con le forze della sicurezza. Il bilancio dei disordini, i più duri da quando l’attuale governo ha preso il potere nel 1991, è stato di almeno 150 morti che hanno spinto la popolazione locale ha organizzare nuove proteste contro il governo. A monte del dissenso, che in questa ricca regione del nord-est dell’Etiopia covava già dal novembre del 2015, c’è l’intenzione dell’esecutivo di espropriare i terreni agli agricoltori locali per venderli ad aziende straniere.
(Debre Zeyit, nella regione di Oromia, dove il 2 ottobre hanno avuto luogo gli scontri)
La decisione, congelata momentaneamente dall’esecutivo, non ha placato le tensioni e alle rivendicazioni sulla proprietà dei terreni si sono presto unite le richieste di maggiori diritti da parte di partiti politici e ampie fasce della popolazione. Uccisioni e arresti di massa sono proseguiti per giorni fino alla proclamazione dello stato d’emergenza attraverso cui il governo ha imposto il coprifuoco e il blocco di internet e impedito assembramenti di qualsiasi tipo. E l’appello al rispetto alla democrazia lanciato ad Addis Abeba l’11 ottobre da Angela Merkel, dove la cancelliera tedesca Angela Merkel ha discusso con il premier Desalegn di rapporti bilaterali, investimenti, commercio e contenimento dei flussi migratori, non spingerà di certo il governo etiope ad atteggiamenti più miti.
Il contenzioso con l’Egitto sulla Diga
Se è vero che nell’accusare Egitto ed Etiopia il governo etiope non abbia finora utilizzato nessun tipo di prova, è altrettanto vero che, come detto, i rapporti con questi due Paesi si sono molto complicati negli ultimi anni.
A pendere sulle relazioni con Il Cairo è la disputa per la costruzione della Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD). La realizzazione dell’opera, del valore di 3,2 miliardi di euro, è affidata all’italiana Salini Impregilo Spa. A regime produrrà 6.000 MW di elettricità e il suo bacino arriverà a contenere 74 milioni di metri cubi d’acqua per inondare un’area di 1.680 km quadrati. Dopo anni di annose trattative, nel marzo del 2015 a Khartoum, capitale del Sudan, il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi ha alla fine deciso di accettare un compromesso mettendo così definitivamente da parte i tuoni infuocati che il suo predecessore Mohamed Morsi non aveva lesinato nei confronti di Addis Abeba promettendo addirittura l’invasione dell’Etiopia qualora i lavori fossero iniziati.
Già ai tempi di Hosni Mubarak l’Egitto aveva più volte criticato il progetto definendolo una minaccia all’approvvigionamento della sua porzione di “oro blu” del Nilo. In base a un accordo siglato tra Il Cairo e il Sudan nel 1959, poco dopo l’indipendenza sudanese (accordo che non venne firmato dall’Etiopia), l’Egitto ha finora sfruttato ogni anno ben 55 miliardi di metri cubi di acqua, su un totale di 75 miliardi. La rimanente parte, circa 20 miliardi di metri cubi, è spettata invece per la stragrande maggioranza al Sudan: circa 18 miliardi di metri cubi. Ciò che avanzava è stato suddiviso tra Etiopia, Uganda, Rwanda, Kenya, Tanzania e Burundi. Questa spartizione è stata rivista nel 2010 con gli Accordi di Entebbe, che però l’Egitto non ha mai ratificato. Negli ultimi anni di crescenti frizioni con l’Etiopia, Il Cairo si è inoltre appellato a un accordo del 1929 che gli garantiva il diritto di veto su tutti i progetti upstream del Nilo, accordo che tutti i Paesi del bacino del Nilo considerano tuttavia superato in quanto mero retaggio coloniale.
Dopo il disgelo del marzo 2015, la questione è stata formalmente archiviata. Anche se adesso Addis Abeba torna a tirarla fuori, dichiarando che l’Egitto starebbe tentando di far leva sulle agitazioni interne per destabilizzare il Paese e porre nuove condizioni per la revisione dell’accordo in vigore sulla diga.
La disputa per i confini con l’Eritrea
Anche tra Etiopia ed Eritrea i rapporti sono tesi da decenni. A fasi alterne al confine tra i due Paesi si verificano scontri o attacchi diretti da parte dell’esercito etiope che rivendica il controllo di Badammé, nella regione di Gasc-Barca, assegnata all’Eritrea da una commissione ad hoc istituita dalle Nazioni Unite per porre fine alle dispute territoriali riaccesesi alla fine degli anni Novanta. L’ultimo sconfinamento da parte dell’Etiopia è stato denunciato dall’Eritrea nel giugno scorso, quando a entrare in territorio eritreo sarebbero state le truppe del TPLF (Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè, membro della coalizione EPRDF-Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front al potere in Etiopia) nella zona di Tserona (130 km a sud di Asmara, nell’Eritrea meridionale).
La disputa tra i due Paesi affonda le proprie radici già nella metà del secolo scorso. Con il ritiro dei colonizzatori italiani, nel 1950 l’Eritrea diventava un’unità autonoma federata all’Etiopia. Ma nel 1962 la degradazione a semplice provincia dell’impero etiope scatenò una reazione indipendentista guidata dal Fronte Popolare per la Liberazione dell’Eritrea (FPLE). La guerra si concluse nel 1991 con la conquista di Asmara e Assab da parte del Fronte. Due anni dopo venne proclamata l’indipendenza nazionale con la nomina di Isaias Afewerki a presidente, tuttora in carica.
(Soldati eritrei a Senafè al confine con l’Etiopia, febbraio 2001)
Nel 1998 le tensioni con l’Etiopia, relative alla striscia di territorio della città di Badammé al confine tra i due Stati, sono sfociate in una guerra che si è conclusa formalmente nel 2000 con la firma del Trattato di Algeri e l’invio di una missione di pace delle Nazioni Unite (UNMEE, United Nations Mission in Ethiopia and Eritrea), il cui mandato è stato ritirato nel 2008.
Da allora, gli attriti non sono mai definitivamente scemati in quanto Addis Abeba non riconosce lo status di annessione di Badammé all’Eritrea e mantiene le sue truppe nell’area di confine, fortemente militarizzata. I due governi si lanciano puntualmente accuse reciproche di attacchi o di sostegno ai gruppi ribelli. Nel 2012 l’Etiopia aveva attaccato una base militare eritrea accusando il governo di Asmara di sostenere attività terroristiche oltre i suoi confini. L’ultima querelle, prima dei fatti del giugno scorso, risale invece al febbraio del 2016, quando Addis Abeba ha accusato l’Eritrea di fomentare manifestazioni antigovernative verificatesi nella regione etiope di Oromia. La stessa in cui si sono verificati i disordini delle scorse settimane.
Il fronte somalo
Oltre Egitto ed Eritrea, l’altro fronte aperto per l’Etiopia è quello con la Somalia. Qui l’esercito etiope stanzia da anni proprie truppe nell’ambito della missione condotta dall’Unione Africana (AMISOM) contro i miliziani jihadisti di Al Shabaab. I soldati etiopi sono responsabili della sicurezza delle regioni di Bay, Bakool e Gedo, ma sono presenti anche a Hiran, al confine con l’Etiopia, dove stando alle ultime notizie nei giorni scorsi hanno abbandonato una base militare situata nel villaggio di El-Ali (a circa 70 km dal capoluogo Beledweyne) permettendo ai jihadisti di riconquistare l’area.
Né l’esercito etiope né l’UA hanno commentato l’accaduto. L’episodio non è però isolato. Nelle settimane scorse le truppe etiopi si erano infatti ritirate anche dalla città di Moqokori, mentre a giugno avevano subito oltre 60 morti a seguito di un attacco di Al Shabaab in una base militare nella città di Halgan.
L’Etiopia dovrà dare spiegazioni del comportamento del suo esercito in Somalia non solo ai vertici dell’UA – sempre più impantanata in questo conflitto – ma anche alla comunità internazionale. L’Occidente continua a investire risorse nel tentativo disperato di salvare la causa del governo somalo. Ma i primi a tradirlo si stanno rivelando i suoi alleati africani. Etiopia compresa.
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Fonte:
http://www.lookoutnews.it/etiopia-stato-emergenza-egitto-eritrea/