giovedì 13 ottobre 2016

Giudici e pm, sono due cose diverse

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Piero Tony è un ex magistrato che ha fatto il pubblico ministero in molti processi importanti, e che fece molto notizia vent’anni fa quando chiese in appello l’assoluzione di un imputato condannato per gli omicidi del cosiddetto “mostro di Firenze”, contraddicendo una consuetudine per cui difficilmente – benché ne abbia titolo e mandato – un pubblico ministero ammette che contro un imputato non ci [...]

Autore: ilPostino | Categoria: Cronaca | Voti: 1 - Commenti: 0


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Sondaggi Movimento 5 Stelle pronto a conquistare anche Verona?

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Il prossimo anno il Comune di Verona andrà al voto per eleggere il nuovo sindaco. [...]

Autore: voxpopuli | Categoria: Politica | Voti: 5 - Commenti: 0


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Valentino Rossi: “Motegi? Serve rimandare il titolo di Marquez”

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Il pesarese in Giappone a margine della conferenza stampa di apertura: “Con 52 punti è una sfida disperata ma più si va avanti e più può succedere di tutto. Qui tantissimi podi ma solo due vittorie, sarebbe bello averne qualcuna in più. Derby in Yamaha? Battere Lorenzo è sempre una bella soddisfazione”. [...]

Autore: sebavettel | Categoria: Scienza e Tecnologia | Voti: 1 - Commenti: 0


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Minoranza PD: nomi e cognomi dei fratelli coltelli di Renzi

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C’è una minoranza nel PD che mette i bastoni tra le ruote a Matteo Renzi. Tanto che, secondo gli analisti più catastrofisti, sul partito del premier aleggerebbe addirittura il fantasma scissione. In fondo parliamo di un partito storicamente diviso tra correnti, correntine, franchi tiratori e fratelli coltelli. Chi fa parte della minoranza PD? Chi fa dormire sonni agitati al premier, in vista del R [...]

Autore: votAntonio | Categoria: Politica | Voti: 4 - Commenti: 0


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Etiopia, dalle rivolte interne riaffiorano le dispute con Egitto ed Eritrea

di Rocco Bellantone

@RoccoBellantone

 

Il governo etiope ha accusato Egitto ed Eritrea di essere dietro le proteste antigovernative che nelle ultime settimane hanno trascinato il Paese nel caos. Dopo aver proclamato lo stato d’emergenza per i prossimi sei mesi, l’esecutivo guidato dal primo ministro Haile Mariam Desalegn punta adesso il dito contro due dei suoi “nemici” storici, sostenendo che tanto Il Cairo quanto Asmara avrebbero fomentato le rivolte che dall’epicentro della regione centro-occidentale di Oromia si sono estese fino a nord nella regione di Amhara.

 

Getachew Redda, portavoce del governo di Addis Abeba, ha parlato di una “rinnovata minaccia proveniente da diverse direzioni”, mossa da “nemici esterni che sono determinati a distruggere l’intero Paese” e i “risultati ottenuti dall’Etiopia negli ultimi vent’anni”.

 

L’Etiopia dice che le autorità egiziane ed eritree avrebbero finanziato e sostenuto militarmente il Fronte di Liberazione Oromo (OLF), il movimento indipendentista al centro delle proteste portate avanti dal gruppo etnico degli Oromo (il più grande in Etiopia, con circa 24 milioni di persone, il 32% della popolazione nazionale), contro la decisione del governo centrale di espropriare le loro terre. Eppure queste accuse, al netto delle note tensioni tra i tre Paesi africani, sembrano essere state agitate appositamente dall’Etiopia per spostare l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi interni del Paese.

 

Le proteste

Lo scorso 2 ottobre, nella regione di Oromia i festeggiamenti per la fine della stagione delle piogge sono sfociati in violenti scontri con le forze della sicurezza. Il bilancio dei disordini, i più duri da quando l’attuale governo ha preso il potere nel 1991, è stato di almeno 150 morti che hanno spinto la popolazione locale ha organizzare nuove proteste contro il governo. A monte del dissenso, che in questa ricca regione del nord-est dell’Etiopia covava già dal novembre del 2015, c’è l’intenzione dell’esecutivo di espropriare i terreni agli agricoltori locali per venderli ad aziende straniere.

 

Etiopia_Oromia(Debre Zeyit, nella regione di Oromia, dove il 2 ottobre hanno avuto luogo gli scontri)

 

La decisione, congelata momentaneamente dall’esecutivo, non ha placato le tensioni e alle rivendicazioni sulla proprietà dei terreni si sono presto unite le richieste di maggiori diritti da parte di partiti politici e ampie fasce della popolazione. Uccisioni e arresti di massa sono proseguiti per giorni fino alla proclamazione dello stato d’emergenza attraverso cui il governo ha imposto il coprifuoco e il blocco di internet e impedito assembramenti di qualsiasi tipo. E l’appello al rispetto alla democrazia lanciato ad Addis Abeba l’11 ottobre da Angela Merkel, dove la cancelliera tedesca Angela Merkel ha discusso con il premier Desalegn di rapporti bilaterali, investimenti, commercio e contenimento dei flussi migratori, non spingerà di certo il governo etiope ad atteggiamenti più miti.

 

Il contenzioso con l’Egitto sulla Diga

Se è vero che nell’accusare Egitto ed Etiopia il governo etiope non abbia finora utilizzato nessun tipo di prova, è altrettanto vero che, come detto, i rapporti con questi due Paesi si sono molto complicati negli ultimi anni.

 

A pendere sulle relazioni con Il Cairo è la disputa per la costruzione della Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD). La realizzazione dell’opera, del valore di 3,2 miliardi di euro, è affidata all’italiana Salini Impregilo Spa. A regime produrrà 6.000 MW di elettricità e il suo bacino arriverà a contenere 74 milioni di metri cubi d’acqua per inondare un’area di 1.680 km quadrati. Dopo anni di annose trattative, nel marzo del 2015 a Khartoum, capitale del Sudan, il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi ha alla fine deciso di accettare un compromesso mettendo così definitivamente da parte i tuoni infuocati che il suo predecessore Mohamed Morsi non aveva lesinato nei confronti di Addis Abeba promettendo addirittura l’invasione dell’Etiopia qualora i lavori fossero iniziati.

 

Grand Ethiopian Renaissance Dam

 

Già ai tempi di Hosni Mubarak l’Egitto aveva più volte criticato il progetto definendolo una minaccia all’approvvigionamento della sua porzione di “oro blu” del Nilo. In base a un accordo siglato tra Il Cairo e il Sudan nel 1959, poco dopo l’indipendenza sudanese (accordo che non venne firmato dall’Etiopia), l’Egitto ha finora sfruttato ogni anno ben 55 miliardi di metri cubi di acqua, su un totale di 75 miliardi. La rimanente parte, circa 20 miliardi di metri cubi, è spettata invece per la stragrande maggioranza al Sudan: circa 18 miliardi di metri cubi. Ciò che avanzava è stato suddiviso tra Etiopia, Uganda, Rwanda, Kenya, Tanzania e Burundi. Questa spartizione è stata rivista nel 2010 con gli Accordi di Entebbe, che però l’Egitto non ha mai ratificato. Negli ultimi anni di crescenti frizioni con l’Etiopia, Il Cairo si è inoltre appellato a un accordo del 1929 che gli garantiva il diritto di veto su tutti i progetti upstream del Nilo, accordo che tutti i Paesi del bacino del Nilo considerano tuttavia superato in quanto mero retaggio coloniale.

 

Dopo il disgelo del marzo 2015, la questione è stata formalmente archiviata. Anche se adesso Addis Abeba torna a tirarla fuori, dichiarando che l’Egitto starebbe tentando di far leva sulle agitazioni interne per destabilizzare il Paese e porre nuove condizioni per la revisione dell’accordo in vigore sulla diga.

 

La disputa per i confini con l’Eritrea

Anche tra Etiopia ed Eritrea i rapporti sono tesi da decenni. A fasi alterne al confine tra i due Paesi si verificano scontri o attacchi diretti da parte dell’esercito etiope che rivendica il controllo di Badammé, nella regione di Gasc-Barca, assegnata all’Eritrea da una commissione ad hoc istituita dalle Nazioni Unite per porre fine alle dispute territoriali riaccesesi alla fine degli anni Novanta. L’ultimo sconfinamento da parte dell’Etiopia è stato denunciato dall’Eritrea nel giugno scorso, quando a entrare in territorio eritreo sarebbero state le truppe del TPLF (Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè, membro della coalizione EPRDF-Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front al potere in Etiopia) nella zona di Tserona (130 km a sud di Asmara, nell’Eritrea meridionale).

 

La disputa tra i due Paesi affonda le proprie radici già nella metà del secolo scorso. Con il ritiro dei colonizzatori italiani, nel 1950 l’Eritrea diventava un’unità autonoma federata all’Etiopia. Ma nel 1962 la degradazione a semplice provincia dell’impero etiope scatenò una reazione indipendentista guidata dal Fronte Popolare per la Liberazione dell’Eritrea (FPLE). La guerra si concluse nel 1991 con la conquista di Asmara e Assab da parte del Fronte. Due anni dopo venne proclamata l’indipendenza nazionale con la nomina di Isaias Afewerki a presidente, tuttora in carica.

 

Eritrea_Etiopia(Soldati eritrei a Senafè al confine con l’Etiopia, febbraio 2001)

 

Nel 1998 le tensioni con l’Etiopia, relative alla striscia di territorio della città di Badammé al confine tra i due Stati, sono sfociate in una guerra che si è conclusa formalmente nel 2000 con la firma del Trattato di Algeri e l’invio di una missione di pace delle Nazioni Unite (UNMEE, United Nations Mission in Ethiopia and Eritrea), il cui mandato è stato ritirato nel 2008.

 

Da allora, gli attriti non sono mai definitivamente scemati in quanto Addis Abeba non riconosce lo status di annessione di Badammé all’Eritrea e mantiene le sue truppe nell’area di confine, fortemente militarizzata. I due governi si lanciano puntualmente accuse reciproche di attacchi o di sostegno ai gruppi ribelli. Nel 2012 l’Etiopia aveva attaccato una base militare eritrea accusando il governo di Asmara di sostenere attività terroristiche oltre i suoi confini. L’ultima querelle, prima dei fatti del giugno scorso, risale invece al febbraio del 2016, quando Addis Abeba ha accusato l’Eritrea di fomentare manifestazioni antigovernative verificatesi nella regione etiope di Oromia. La stessa in cui si sono verificati i disordini delle scorse settimane.

 

Il fronte somalo

Oltre Egitto ed Eritrea, l’altro fronte aperto per l’Etiopia è quello con la Somalia. Qui l’esercito etiope stanzia da anni proprie truppe nell’ambito della missione condotta dall’Unione Africana (AMISOM) contro i miliziani jihadisti di Al Shabaab. I soldati etiopi sono responsabili della sicurezza delle regioni di Bay, Bakool e Gedo, ma sono presenti anche a Hiran, al confine con l’Etiopia, dove stando alle ultime notizie nei giorni scorsi hanno abbandonato una base militare situata nel villaggio di El-Ali (a circa 70 km dal capoluogo Beledweyne) permettendo ai jihadisti di riconquistare l’area.

 

Né l’esercito etiope né l’UA hanno commentato l’accaduto. L’episodio non è però isolato. Nelle settimane scorse le truppe etiopi si erano infatti ritirate anche dalla città di Moqokori, mentre a giugno avevano subito oltre 60 morti a seguito di un attacco di Al Shabaab in una base militare nella città di Halgan.

 

L’Etiopia dovrà dare spiegazioni del comportamento del suo esercito in Somalia non solo ai vertici dell’UA – sempre più impantanata in questo conflitto – ma anche alla comunità internazionale. L’Occidente continua a investire risorse nel tentativo disperato di salvare la causa del governo somalo. Ma i primi a tradirlo si stanno rivelando i suoi alleati africani. Etiopia compresa.

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Porsche Carrera GT regala burnout spettacolari [Video]

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Il proprietario di una Porsche Carrera GT si scatena, regalando al pubblico un ricco campionario di burnout. Il tizio ci sa fare ed ha un controllo [...]

Autore: WhatsUp | Categoria: Cultura e Spettacoli | Voti: 1 - Commenti: 0


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Tutto sul referendum costituzionale

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Il prossimo 4 dicembre in Italia si vota per un referendum con cui gli elettori potranno decidere se approvare o respingere la riforma della Costituzione approvata dal Parlamento e proposta dal governo Renzi. Non è previsto un quorum, quindi il risultato del referendum sarà valido indipendentemente da quante persone andranno a votare. Se la maggioranza voterà Sì, la riforma sarà approvata. Se la m [...]

Autore: votAntonio | Categoria: Politica | Voti: 4 - Commenti: 0


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Thailandia: è morto il re Bhumibol Adulyadej

Il palazzo reale di Bangkok ha riferito che si è spento oggi, giovedì 13 ottobre, all’età di 88 anni il re di Thailandia, Bhumibol Adulyadej. Da giorni centinaia di persone si erano radunate davanti all’ospedale Siriraj della capitale in cui era ricoverato per rendere omaggio all’amato sovrano. Bhumibol, sul trono da 70 anni, era il monarca più longevo della storia thailandese.

 

Molto amato dal popolo e venerato quasi come un semidio, era ricoverato da un mese. Ieri, mercoledì 12 ottobre, era stato comunicato che era attaccato a un respiratore, in emodialisi.

 

Il nuovo re thailandese, Rama X, sarà il principe ereditario Vajiralongkorn (64 anni). Ad annunciarlo è stato il premier Prayuth Chan-ocha. Come previsto dalla Costituzione, il nome di Vajiralongkorn verrà presentato nella sera di oggi al parlamento per l’approvazione.

 

(Agenzia Dire, Ansa)

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Babbi Dolci freschi: tutti i vincitori

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" Babbi Dolci Freschi"ci ha accompagnato per tutta l'estate con dolci e creazioni di altissimo livello. 15 blogger partecipanti per 37 ricette in gara: proposte golose, fresche e fantasiose realizzate con i prodotti dell' Azienda Dolciaria BABBI. Dopo l'annuncio dei finalisti ( categoria "Miglior Ricetta" e categoria " FoodPhotography")siamo finalmente pronti a farvi scoprire i vincitori del conco [...]

Autore: masterchef | Categoria: Salute e Alimentazione | Voti: 1 - Commenti: 0


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Scelta Civica, Zanetti e verdiniani vincono la battaglia per il nome. Monti contrario: “Pressione Pd”

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Il sottosegretario Enrico Zanetti e altri quattro deputati che hanno lasciato Scelta Civica hanno vinto la battaglia per il nome, nonostante il No del fondatore Mario Monti. La decisione è arrivata dall’ufficio di presidenza della Camera dopo che a metà luglio scorso si era aperto il contenzioso con la decisione di Zanetti di apparentarsi con … [...]

Autore: voxpopuli | Categoria: Politica | Voti: 3 - Commenti: 0


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Yemen: gli USA “entrano in guerra”

di Rocco Bellantone

@RoccoBellantone

 

Dopo aver subito due attacchi missilistici nello stretto yemenita di Bab el-Mandeb nei giorni scorsi, giovedì 13 ottobre le navi da guerra americane dispiegate nel Mar Rosso hanno risposto al fuoco degli Houthi colpendo tre postazioni radar controllate dai ribelli sciiti.

 

Missili da crociera Tomahawk sono stati lanciati dal cacciatorpediniere USS Nitze in tre zone lungo la costa in mano ai ribelli: nei pressi di Ras Isa, a nord di Mukha e nei pressi di Khoka. Nel fornire i dettagli dell’operazione, il portavoce del Pentagono Peter Cook ha dichiarato che le postazioni radar centrate sono quelle utilizzate dagli Houthi per tentare di colpire, senza però riuscirvi, domenica 9 ottobre il cacciatorpediniere USS Mason e, successivamente, mercoledì 12 ottobre ancora una volta il Mason e la nave da trasporto anfibia USS Ponce. Le stesse postazioni radar erano state usate dai ribelli per colpire lo scorso primo ottobre una nave militare degli Emirati Arabi Uniti (la Swift), stanziata sempre nello stretto di Bab el-Mandeb e con cui Abu Dhabi fornisce supporto logistico alle truppe della coalizione arabo-sunnita a guida saudita che in Yemen combatte contro gli Houthi per ristabilire al potere il presidente deposto Abdrabbuh Mansour Hadi.

 

Yemen_missili_USA(Un’immagine dell’attacco missilistico degli USA contro le postazioni degli Houthi)

 

Quella che il Pentagono ha definito come un’azione di “autodifesa” rappresenta di fatto il primo intervento militare diretto che gli USA effettuano in questo conflitto a sostegno della coalizione saudita. Ed è un intervento che, in prospettiva, potrebbe proiettare questa guerra in una nuova e ancor più cruenta fase a cui però gli Stati Uniti allo stato attuale non sembrano essere preparati.

 

L’intervento ha già agitato le acque del Golfo di Aden, dove l’Iran subito dopo l’operazione degli USA ha inviato due navi da guerra. Secondo l’agenzia iraniana Tasnim si tratta delle navi Alvand e Bushehr. La notizia è stata confermata dal contrammiraglio della Marina di Teheran Habibollah Sayyari, il quale ha specificato che la flotta è partita dalla città portuale meridionale iraniana di Bandar Abbas e stanzierà nel Golfo di Aden per i prossimi tre mesi per “proteggere le proprie imbarcazioni commerciali da attacchi di pirateria”, negando che vi siano collegamenti tra questo ordine e l’attacco americano nei confronti degli Houthi.

 

Prima dell’escalation degli ultimi giorni, l’Amministrazione Obama aveva provato a mantenersi a “distanza di sicurezza” dal vivo del conflitto, da un lato favorendo da un lato la ripresa dei negoziati e dall’altro continuando a inviare armi all’alleato saudita, di cui gli USA sono il principale fornitore al mondo. Una posizione a dir poco discutibile, più volte criticata dalla comunità internazionale ma che finora aveva permesso agli Stati Uniti di far stanziare le proprie navi da guerra di fronte alle coste yemenite. Si tratta di un posizionamento strategico in quanto ha consentito a Washington di presidiare lo stretto di Bab el-Mandeb, da dove transitano ingenti traffici commerciali e petrolieri che dall’Oceano Indiano raggiungono il Mediterraneo passando attraverso il Canale di Suez, e al contempo di coordinare da vicino droni e blitz di forze speciali per uccidere jihadisti affiliati ad AQAP (Al Qaeda nella Penisola Araba) o allo Stato Islamico che operano in Yemen.

 

Yemen

 

Sfuggendo alle accuse di essere complice dei massacri compiuti dai caccia sauditi ai danni di migliaia di innocenti (più di 6.700 i morti nel conflitto yemenita, circa 4mila dei quali civili), gli USA in questi mesi hanno continuato ad agire in modo disinvolto. Nel corso della campagna militare della coalizione arabo-sunnita, hanno garantito all’esercito di Riad supporto di intelligence e rifornimento di carburante per i loro caccia (5.700 i raid effettuati), inviando personale militare nelle basi militari saudite per coordinare gli attacchi sul terreno e chiudendo nel 2016 affari del valore di 1,15 miliardi di dollari che hanno incluso la vendita di carri armati e di altre armi pesanti. A settembre il Senato al Congresso aveva provato a bloccare la vendita senza però riuscirvi. In quell’occasione, il senatore repubblicano del Kentucky, Rand Paul, rilasciò un commento che a meno di un mese di distanza dalle elezioni presidenziali dell’8 novembre sta riemergendo con forza nel mainstream mediatico americano: “Siamo complici e coinvolti attivamente nella guerra in Yemen”.

 

È un’affermazione con cui dovrà necessariamente fare i conti non solo Obama ma soprattutto il futuro inquilino della Casa Bianca. Dopo il lancio della prima operazione militare in Yemen, per gli USA parlare di soluzione diplomatica a questa crisi sarà molto più complicato.

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(M5s) L’appetito vien mangiando

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Il buon vecchio detto de "L'appetito vien mangiando" si è sempre ben sposato con la politica italiana. Tantissimi promettenti politici, una volta insediati su una poltrona, hanno iniziato a "godere" dello status di privilegiato e si sono rimangiati tante, ma tante promesse (leggi Di Pietro - Le mani sporche di mani pulite). Non era importante... Leggi di più [...]

Autore: loveadvisoritalia | Categoria: Politica | Voti: 1 - Commenti: 0


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A mosca cieca con il referendum

Uno degli aspetti più surreali di questo referendum - quello del 4 dicembre intendo - è che ci è del tutto ignota una parte consistente delle sue conseguenze concrete in caso di vittoria del sì o del no. E non sto parlando dei presunti effetti sul [...]

Autore: Hurricane | Categoria: Politica | Voti: 3 - Commenti: 0


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Filippine, guerra alla droga: i numeri del “metodo Duterte”

di Priscilla Inzerilli

 

“Se la Germania ha avuto Hitler, le Filippine avranno Duterte”. Questo è stato il contenuto di una delle ultime dichiarazioni choc del presidente delle Filippine, che la scorsa settimana, nel corso di una conferenza stampa, si è paragonato nientemeno che al Führer, dichiarandosi felice di eliminare i più di tre milioni (anche se i dati ufficiali parlano di poco più di un milione) di tossicodipendenti presenti nel Paese per “tutelare la prossima generazione”, lanciandosi in un infelice paragone con l’Olocausto.

 

La guerra alla droga intrapresa da Duterte, infatti, non coinvolge esclusivamente spacciatori e altri criminali legati ai traffici delle sostanze stupefacenti, ma gli stessi consumatori di shabu (o shaboo), conosciuta come la “droga dello sballo”, una potentissima metanfetamina che, a partire dalle Filippine, ha preso piede in altri Paesi del Sud-Est asiatico, come l’Indonesia, diffondendosi persino in alcune città italiane come Milano.

 

A partire dal luglio scorso – mese in cui Duterte è entrato ufficialmente in carica – fino alla prima settimana di ottobre 2016, secondo i dati ufficiali diffusi dalla Philippine National Police (PNP) si contano oltre 3.600 decessi, a seguito di operazioni di polizia “ufficiali” terminate in sparatorie, ma anche – e soprattutto – come conseguenza delle azioni dei cosiddetti “squadroni della morte”, sorta di vigilantes incaricati di giustiziare sommariamente spacciatori e tossicodipendenti. Senza contare le persone rimaste assassinate in circostanze definite “inspiegabili”, ancora oggetto di indagine da parte della polizia locale.

 

Filippine_Duterte_droga

 

Parte integrante della campagna contro le droghe illegali condotta dalle forze di polizia è il cosiddetto PNP OPLAN – Double Barrel project Tokhang (dalla contrazione delle parole toktok, bussare, e hangyo, richiesta), un metodo, già abbondantemente “rodato” all’epoca in cui Duterte ricopriva la carica di sindaco nella città di Davao, che prevede il recarsi di casa in casa invitando spacciatori e tossicodipendenti ad arrendersi e ad avere in tal modo salva la vita.

 

Rodrigo Duterte(Il presidente delle Filippine Rodrigo Duterte)

 

Un sistema che sembrerebbe aver dato i suoi frutti: ad oggi, infatti, sarebbero stati 52.967 gli spacciatori e 681.264 i consumatori di droga a consegnarsi spontaneamente alle autorità, per evitare di rimanere coinvolti nel massacro. Facendo riferimento alle statistiche della polizia, nell’arco temporale di circa un anno, i crimini nella capitale Manila – e in particolare i reati per droga – sono diminuiti in maniera significativa; risulta tuttavia evidente che vi sia stato un aumento parallelo degli omicidi (oltre il 120%), di cui una buona parte riguardante quegli assassinii definiti genericamente come “extragiudiziali”.

 

PCIJ-Index-Crime-Volume-T1

 

Di seguito i numeri delle vittime della “war on drugs” condotta da Duterte, secondo i dati diffusi dalla PNP e riportati dal sito web Ripple.com, aggiornati al 6 ottobre:

- 3.684: numero totale delle vittime a partire dal 1 luglio;

- 1.506: soggetti legati alla droga rimasti uccisi nel corso di operazioni di polizia. Il dato risale al 14 settembre 2016, la cifra sarebbe stata però in seguito corretta a sole 1.105 vittime;

- 2.294: vittime di omicidi extragiudiziali (che il PNP ha però chiarito non poter essere direttamente riconducibili alle operazioni anti-droga, a meno che ciò non possa essere determinato “attraverso una corretta indagine”);

- 23.852: numero di operazioni di polizia condotte;

- 22.971: soggetti legati alla droga arrestati;

- 1.701.647: case perquisite tramite il Progetto Tokhang;

- 734.231: il numero totale di persone che si sono arrese alle autorità attraverso il progetto Tokhang;

- 2.105: il numero di casi di omicidi inspiegabili;

- 1.784: numero di morti ancora sotto inchiesta.

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Messaggeri dell’oscurità

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Di Alicia Gimenéz-Bartlett e pubblicato da Sellerio, "Messaggeri dell'oscurità" è un romanzo poliziesco su una storia di peni, sette ed autocastrazioni. [...]

Autore: Maxso | Categoria: Cultura e Spettacoli | Voti: 1 - Commenti: 0


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Referendum, nel sito web del comitato "bastaunsì" si evidenziano i punti in comune tra le riforme del pdl e il ddl Boschi

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Nel'home page il simbolo del 'vecchio Pdl' e poi il titolo che lascia pochi spazio ad equivoci: "I punti in comune tra riforma costituzionale e programma del Pdl". L'immagine compare sulla prima pagina on line del comitato bastaunsì del Partito Democratico."Alla vigilia delle elezioni politiche del 2013 - si legge nel testo - il Pdl presenta un documento, firmato dal leader Silvio Berlusconi, per [...]

Autore: journalist | Categoria: Politica | Voti: 3 - Commenti: 0


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