domenica 9 ottobre 2016

Siria: come funzionano i servizi segreti di Assad

di Marco Giaconi

 

Come sempre accade in Medio Oriente, l’intelligence ha di solito due ruoli: mantenere la stabilità politica interna di un regime, sempre messa in forse dalle lotte settarie; gestire la politica estera con la necessaria durezza. Dalla fine del secondo conflitto mondiale, i servizi segreti mediorientali sono i veri attori delle relazioni internazionali dei loro Paesi, mentre i ministri ufficialmente competenti hanno nella maggior parte dei casi ruoli di semplice rappresentanza nelle assise mondiali. Se Winston Churchill notava che “gli ambasciatori stanno zitti in almeno sei lingue diverse” si potrebbe aggiungere che in Medio Oriente, anche oggi, gli ambasciatori devono stare zitti nel modo più poliglotta possibile.

 

Nella situazione di costante instabilità che contraddistingue il Medio Oriente dall’inizio delle primavere arabe nel 2011, il caso più interessante da indagare è quello dei servizi segreti siriani, soprattutto se si analizzano i cambiamenti che hanno registrato al loro interno con il passaggio della presidenza da Hafez Assad al figlio Bashar Assad, un oculista specializzatosi a Londra arrivato al potere quasi per caso. Bashar era infatti stato escluso dalla carriera politica dal padre che aveva indicato come suo successore il figlio maggiore, Bassel, morto nel 1994.

 

Storia

La struttura dei servizi siriani (Mukhabarat) è stata costituita dalle autorità mandatarie francesi, mentre la distribuzione delle sue agenzie e dei suoi reparti si è sempre adattata alla dimensione tribale e personalistica del potere. Queste caratteristiche sono rimaste tali anche dopo il golpe con il partito Baath è salito al potere nel 1963. Dopo il colpo di stato si è assistito però alla creazione di un nuovo servizio molto centralizzato ma in cui i singoli capi-struttura hanno iniziato a pretendere dai loro sottoposti fedeltà nei loro confronti piuttosto che nei confronti dello Stato.

 

Durante la presidenza di Hafez Assad prima e Bashar Assad poi, i servizi segreti siriani sono stati dominati dai clanfamigliari e religiosi legati al regime, da cui dipendono gerarchie, equilibri di potere interni e reclutamento di nuove leve. Fino a prima dello scoppio della guerra civile nel 2011, gli Assad hanno però garantito anche all’interno dei servizi segreti la rappresentanza di tutte le etnie e religioni presidenti nel Paese, affidando le direzioni delle varie sezioni ad alawiti ovviamente, ma anche in minor parte a cristiani, armeni, copti e perfino sunniti.

 

Il ruolo della Russia

Un ruolo molto influente nella designazione di questo equilibri lo ha storicamente avuto la Russia. Con il suo ingresso nella grande guerra in corso in Medio Oriente, Mosca ha costituito in Iraq un centro di coordinamento tra i servizi segreti iracheni, russi, siriani e iraniani, finalizzato allo scambio di informazioni sullo Stato Islamico e sui passaggi di terroristi da un Paese all’altro. L’intelligence militare russa, il vecchio GRU, coordina in Siria gli attacchi aerei e terrestri siro-iraniani contro il Califfato e contro i ribelli anti-Assad, raccogliendo al contempo notizie riservate sugli apparati israeliani che operano nelle alture del Golan.

 

In quest’ottica, quello siriano resta principalmente un servizio interno, mostrandosi però capace – anche in una fase di oggettiva debolezza del regime di Assad come quella attuale – per fornire supporto logistico e tattico a russi e iraniani sul terreno degli scontri, ma anche per agire con forze militari di élite.

 

Assad Putin Latakia(Le immagini di Assad e Putin a Latakia, dove ha sede una base aerea russa)

 

La suddivisione

Le branche generali del servizi segreti siriani sono quattro, interconnesse tra di loro soprattutto tramite la presidenza e il partito Baath: intelligence dell’aviazione, intelligence militare, Direttorato Generale dell’Intelligence, intelligence politica. Ognuna delle quattro branche è formata da diversi settori o reparti.

 

La seconda e la quarta branchia sono quelle più “dure” nei rapporti con la popolazione: le loro divisioni principali sono i centri per gli interrogatori, le cosiddette “cellule” e le unità operative, quest’ultime quasi sempre “miste” e finalizzate a specifiche attività informative sul terreno.

 

La quarta branchia, ovvero quella politica, dispone di agenti e informatori infiltrati in maniera estremamente ramificata in ogni fascia della popolazione. Tra operativi e informatori stabili o occasionali, si calcola che almeno un cittadino su venti abbia a che fare per lavoro con il questa branchia dei servizi segreti siriani.

 

Pensare, come ritengono molti Paesi occidentali, di organizzare “rivolte democratiche” o “primavere” varie senza sapere che in ogni più piccola manifestazione negli Stati del Medio Oriente ci sono almeno tre infiltrati del regime, è dimostrazione di pericolosa ingenuità. Settori o anche semplici filiali di ognuno dei quattro servizi sono presenti in tutte le strutture delle forze armate siriane, dove raccolgono dati e informazioni sul personale interno, sulle famiglie dei militari e sul clima politico delle aree in cui essi operano.

 

L’intelligence dell’Aviazione

L’intelligencedell’Aviazione, il vero asse portante del regime alawita degli Assad (non a caso Hafez Assad era un aviatore) è formato da: un Reparto Amministrativo; un Settore Informazioni, che si occupa di analisi e di controllo del web, oltre che dei gruppi politici e religiosi; un Reparto Interrogazioni, la struttura ufficiale di tutto il sistema dell’intelligence nel suo complesso, anche se ogni “divisione” ha il suo gruppo di inquisitori; un Settore Aeroporti, che garantisce la sicurezza degli aerei sui vola il presidente e delle sue visite all’interno del Paese e all’estero; un Reparto Operazioni, che si occupa di azioni sia all’estero che all’interno, comprese quelle che coinvolgono l’aviazione e i rapporti con i servizi stranieri; un Reparto Operazioni Speciali. Si tratta, quindi, di una struttura che collabora e sostiene le altre quando, per usare una vecchia battuta cinematografica, “il gioco si fa duro e i duri cominciano a giocare”. Le sei divisioni che fanno parte dell’intelligence dell’Aviazione hanno sede a Damasco, mentre loro filiali sono presenti in tutti i governatorati del Paese.

 

ali mamlouk(Ali Mamlouk, capo del National Security Bureau del regime siriano)

L’intelligence militare

L’intelligence militare ha sede primaria a Damasco. Ognuno dei suoi reparti dispone di un comando regionale. I reparti sono indicati con delle cifre: 291, settore amministrativo e quartier generale; 293, controllo degli ufficiali, con il suo direttore che ha accesso diretto al presidente Assad; 294, controllo delle divisioni militari eccetto la Difesa Aerea e l’Aviazione, elaborazione di relazioni sulla preparazione al combattimento delle unità, valutazione della fedeltà al regime da parte delle forze armate; 235, conosciuto come Palestine Branch, coordina le operazioni di intelligencecontro Israele e nei confronti dei gruppi della resistenza palestinese sia sul piano esterno che interno; 235, si occupa dei movimenti islamici jihadisti e dei rifugiati palestinesi; 211, lavora sul web, monitora e raccoglie notizie dai siti (la soluzione più economica per un servizio che ha poca risorse da inviare all’estero) censurando quelli più avversi al regime; 225, monitora le telecomunicazioni cooperano con il reparto 211; 248, si occupa degli interrogatori di “testimoni” politicamente rilevanti, opera anche insieme al corrispondente reparto dell’Aviazione; 215 e 216, compiono raid su obiettivi riservati; 220, opera sulle Alture del Golan.

 

Direttorato Generale dell’Intelligence

All’interno del Direttorato Generale dell’intelligence operano le seguenti sezioni: 111, si occupa di amministrazione e ospita il quartier generale; 251, monitora i gruppi politici e religiosi e i gruppi armati avversi al regime, lavora a stretto contatto con il reparto 235 dell’intelligence dell’Aviazione per indagare sul terrorismo antialawita e antisciita; 255, si occupa della propaganda politica; 279, si occupa di coordinamento tra tutte le sezioni dell’intelligencesiriana e mette in correlazione i servizi di Bashar Assad con le agenzie estere (alleate o al servizio di Paesi nemici).

 

Intelligence Politica

Le divisioni dell’intelligence politica sono le seguenti: il settore prigioni, cheopera nelle carceri per reclutare informatori e infiltrare i movimenti contrari al regime; il settore permessi, che rilascia autorizzazioni sia commerciali che per possedere tv, radio o siti internet; il settore rischi,che monitora i singoli cittadini inquadrandone le caratteristiche sia professionali sia ideologiche; il settore addestramento,che seleziona, addestra e motiva informatori civili per interrogatori non-violenti e per “operazioni psicologiche”.

 

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Speramos Bien! Il nuovo uovo avvelenato del Cavalier Serpente

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Commemorazione Il 22 settembre in una Sala Sinopoli gremita di amici, con un palcoscenico ancora più affollato della platea, siamo andati a una commemorazione festosa per Gianmaria Testa. Non pensavamo che uno spettacolo in fondo organizzato per rimpiangere un amico, un artista, un uomo di spettacolo morto da poco avrebbe potuto trasformarsi in un evento così pieno di musica, e questo è normale, m [...]

Autore: LaFra | Categoria: Cultura e Spettacoli | Voti: 1 - Commenti: 0


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La vigilia del No della minoranza di Bersani al referendum (in attesa della Direzione)

La vigilia dello strappo si consuma al Nazareno senza pathos. Quasi nell’attesa, lenta, degli eventi. Se a parole c’è chi considera ancora l’attesa Direzione Pd come l’ultima occasione per evitare l’implosione al Nazareno sul referendum costituzionale, in realtà, il tempo delle mediazioni sembra ormai finito. Scaduto, almeno per la minoranza di Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza. In attesa che [...]

Autore: maradesnuda | Categoria: Politica | Voti: 3 - Commenti: 0


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Marocco, elezioni legislative: un voto importante per l’area del Mediterraneo

di Rocco Bellantone

@RoccoBellantone

 

In Marocco oggi, venerdì 7 ottobre, 15,7 milioni di cittadini sono chiamati alle urne per eleggere i 395 deputati della Camera bassa dell’Assemblea legislativa (il parlamento nazionale). Il 55% dei votanti è formato da uomini, mentre il 45% da donne. Si vota con un sistema rappresentativo proporzionale, mentre la soglia di sbarramento è stata fissata al 3%. È una scelta, quest’ultima, fatta per permettere a un ampio numero di partiti politici di essere rappresentati alla Camera, cosa che però potrebbe comportare delle difficoltà nel momento in cui dovrà essere composta la nuova maggioranza in parlamento. Secondo i dati forniti dal ministero dell’Interno marocchino, sono 1.410 le liste che si presentano a questa tornata elettorale per un totale di 6.992 candidati.

 

Dei 395 seggi in palio 305 saranno distribuiti tra le 92 circoscrizioni locali. I restanti 90 saranno riservati alle donne (60 seggi) e ai giovani sotto i 40 anni (30 seggi). Per lo svolgimento della campagna elettorale, il governo ha fornito un contributo di 250 milioni di dirham (22,9 milioni di euro) ai trenta partiti politici in competizione. Lo Stato ha inoltre fissato a 500.000 dirham (45,827 euro) il tetto massimo delle spese che potevano essere effettuate da ciascun candidato per la promozione della propria candidatura.

 

Favoriti sono il PJD (Partito di Giustizia e Sviluppo), al governo dal 2011, conservatore e di ispirazione islamista, guidato dal premier uscente Abdelilah Benkirane; il PAM (Partito dell’Autenticità e della Modernità) di Iliyas El Omari, formazione social-liberale e di centro sinistra, molto vicina al re Mohammed VI.

 

Re Marocco Mohammed VI(Il Re del Marocco Mohammed VI)

 

Le elezioni legislative marocchine rappresentano un appuntamento elettorale da monitorare con molta attenzione. Il Marocco è infatti l’unico Stato del Medio Oriente e del Nord Africa che non solo ha retto l’urto delle primavere arabe, ma anche saputo rispondere in parte alle richieste del popolo con un esteso piano di riforme sociali ed economiche con cui ha proposto un nuovo equilibro in chiave moderna tra lo spirito islamista e laico del Paese. È per questo motivo che in un momento di massima vulnerabilità dell’Europa di fronte alle crisi che imperversano in Iraq, Siria e Libia, il Marocco può e deve porsi come un ponte lungo il Mediterraneo in grado di unire e far comunicare il mondo islamico e l’Occidente.

 

Ecco l’intervista all’ambasciatore del Regno del Marocco in Italia Hassan Abouyoub, pubblicata all’interno del saggio Medio Oriente. Dove andiamo edito da G-Risk in collaborazione con Lookout News.

 

Tratta dei migranti, traffici illegali, minaccia del terrorismo. come si riavvicinano le due sponde del mediterraneo?

Nell’analisi delle crisi attuali che interessano l’area del Mediterraneo oc- corre tenere conto anzitutto dell’influenza dell’Impero ottomano e del lascito della gestione coloniale europea. Nel 1957, con la firma dei Trattati di Roma e la nascita del mercato europeo comune, l’Europa decise di mante- nere dei legami forti con l’Africa in un’ottica neocolonialista. L’obiettivo era ricostruire il Continente dopo la Seconda Guerra Mondiale, ma per farlo ser- viva il contributo del capitale umano africano. Superata questa fase l’Euro- pa non ha più avuto una strategia precisa. Prima è stata presa dall’ossessione energetica, innescata dalla crisi del petrolio degli anni Set- tanta. Poi, con gli attacchi terroristici degli anni Novanta, ha lasciato pre- valere la dialettica della paura. Adesso la minaccia del terrorismo, sommata alla crisi economica e alla nuova flessione del petrolio, mette sullo stesso piano le due sponde del Mediterraneo. Oggi Europa e Africa sono chiamate ad affrontare sfide globali comuni: dalla sicurezza alla lotta al terrorismo, dal contrasto ai traffici di esseri umani e droga ai cambiamenti climatici. Per risolvere queste problematiche serve però un’assunzione di responsabilità comune, forte spirito di solidarietà e una visione che permetta di ricostruire le governance dei paesi più instabili.

 

Dunque è una strada praticabile quella di esportare i modelli di democrazia occidentale?

Non è possibile esportare un modello di democrazia pronto all’uso. Finora l’Europa ha fallito nell’accompagnare gli Stati dell’Africa e del Medio Oriente verso una gestione virtuosa delle loro immense risorse naturali. In generale è mancato un fronte comune di dialogo finalizzato allo sviluppo del progetto Euro-Mediterraneo, fondato sulla corresponsabilità tra le due sponde.

 

Quanto peso ha l’aspetto religioso nella guerra tra sunniti e sciiti in Siria e Iraq?

Questa guerra rappresenta solo un piccolo frangente nella storia del- l’Islam, in cui sunniti e sciiti hanno quasi sempre convissuto in equilibrio. Ciò che sta accadendo va oltre l’aspetto religioso. Quello in corso è un gran- de gioco geostrategico che sta avendo un impatto mondiale.

 

Hassan Abouyoub(Hassan Abouyoub)

 

Dunque i fattori politici ed economici travalicano quello religioso?

Occorre inquadrare con chiarezza la questione del Kurdistan. Da questa questione dipendono il ruolo della Turchia da una parte e quello dell’Iran dall’altra. L’obiettivo strategico di Teheran è sempre stato quello di ricavarsi un corridoio verso il Mediterraneo. La campagna avviata dall’Iran è motivata da interessi energetici e da esigenze logistiche che rimandano principalmente al controllo di determinate aree come ad esempio lo Stretto di Hormuz (lo Stretto che divide la Penisola arabica dalle coste dell’Iran, ndr). In questa mappa geopolitica la Russia sta avendo un ruolo sempre più determinante mentre gli Stati Uniti non hanno più il monopolio dei tempi della Guerra Fredda.

 

Fin dove potrà spingersi lo stato islamico in questa guerra?

ISIS nasce con i sunniti iracheni che hanno reagito alle ingiustizie perpetrate per decenni dal governo sciita di Baghdad voluto dagli americani che in Iraq hanno commesso errori sia nell’analisi del fenomeno che nella terapia scelta con l’intervento militare del 2003. La propaganda di ISIS non ha uno spessore ideologico, ma l’impatto che sta avendo se non verrà contrastato potrà creare fonti di instabilità permanenti. Non faccio parte del campo dei pessimisti. Ho fiducia nell’umanità e nella sua capacità di superare situazioni critiche come questa. Nella sua storia l’Europa ha conosciuto guerre molto più dure, come quelle di religione.

 

La conseguenza naturale del conflitto in corso sarà una revisione degli accordi di Sykes-Picot?

Probabilmente sì. Storicamente i confini e le sovranità nazionali sono sempre stati contraddistinti da una mobilità geografica oltre che politica. La risposta giusta che si può dare al rischio di secessionismi in Medio Oriente e in Africa è pensare nuovi modelli istituzionali basati sul riconoscimento delle autonomie. L’Italia lo ha già fatto con l’Alto Adige ed è un modello che ha funzionato bene. Sarebbe la più grande ricchezza della grande area dell’Euro-Mediterraneo allargata all’Africa.

 

Il percorso diplomatico avviato in Siria va in questa direzione?

C’è una parte del Medio Oriente e del Nord Africa convinta del fatto che l’Occidente e l’ONU non debbano interferire negli affari interni della Siria, principalmente perché lo dice la Carta delle Nazioni Unite. Il nodo è trovare un equilibrio tra la legittimità della sovranità nazionale e il grado di inter- vento che può essere esercitato dall’estero per difendere l’incolumità di popolazioni a rischio.

 

Cosa prevede, invece, nel destino della Libia?

In Libia il Marocco sta facendo valere tutto il suo peso politico per fare emergere un’alternativa politica solida dopo la caduta del regime di Gheddafi. Dobbiamo fare in modo che in questo processo non ci siano nuovi interventi dall’esterno come accaduto in passato. La sfida adesso è rafforzare la legittimità del governo del primo ministro Faiez Serraj, poi potrà ripartire la macchina dello Stato. Questo esecutivo non è la risposta finale ai problemi della Libia ma un mezzo che permetterà di iniziare a ricostruire il Paese, dargli una nuova Costituzione, organizzare nuove elezioni, fermare il traffico di armi. Dobbiamo dare fiducia ai libici.

 

Il Marocco può essere da faro per lo sviluppo di tutta l’Africa?

Per capire l’Africa bisogna partire dalla sua demografia. Nel 1950 la sua popolazione era di 220 milioni di persone, oggi supera il miliardo e duecento milioni. È un capitale umano al centro di un cambiamento geostrategico storico. Ma gli africani hanno bisogno di aiuto e questo aiuto può arrivare oltre che dall’Europa anche dal Nord Africa. Da quindici anni Sua Maestà il Re del Marocco Mohammed VI ha aperto le porte del nostro Paese per assorbire e valorizzare questa grande risorsa. È una scelta mirata non solo a salvare l’Africa ma anche a salvare l’Europa, che non è più in grado di sostenere i modelli di benessere del secondo dopoguerra. Marocco e Italia devono essere i mediatori di una politica di partenariato capace di unire il vostro continente al nostro.

 

L’Europa riuscirà a reagire alle criticità che ne stanno minando dall’interno le fondamenta, dalla crisi economica alla minaccia del terrorismo?

L’Europa ha scelto una strada giusta puntando sull’integrazione. Ma l’integra- zione è una responsabilità da condividere. Ancora oggi in alcuni Stati europei c’è molta ipocrisia tra i proclami che vengono fatti e i programmi attuati per l’integrazione della cultura islamica. Dialogare con l’Islam significa dialogare non solo con la sua religione ma anche con la sua cultura. Re Mohammed VI è il principe dei credenti, garantisce il rispetto della libertà religiosa, offre protezione ai cristiani e a ogni altra forma di confessione. Il Marocco è un melting pot di culture e religioni. Dietro questo progetto di società, che può essere lo stesso che può portare all’integrazione tra Europa e Islam, c’è un processo che parte da molto lontano e una consapevolezza millenaria del desiderio e del bisogno di convivere.

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La lista completa degli account dei Vip più seguiti su Instagram

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In questo articolo ti svelerò i migliori profili dei Vip più seguiti su Instagram. L'app di Facebook sta diventando oramai, con i suoi oltre 500 milioni di utenti attivi, un social sempre più presente anche nel mondo delle celebrità. Sono moltissimi gli scatti condivisi e i selfie, a volte anche sexy, che le celebrità decidono di offrire via Instagram ai propri fan. [...]

Autore: Fabry19dice | Categoria: Cultura e Spettacoli | Voti: 1 - Commenti: 0


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Referendum costituzionale: cosa prevede e cosa cambia

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Cosa prevede e cosa cambia con la riforma della Costituzione voluta da Matteo Renzi e dalla ministra Maria Elena Boschi? Il 4 dicembre gli italiani saranno chiamati a votare il referendum costituzionale. L’appuntamento è cruciale, non solo perché la riforma prevede una radicale trasformazione dell’assetto istituzionale, ma anche perché le dimissioni del premier, in caso di vittoria del no, continu [...]

Autore: voxpopuli | Categoria: Politica | Voti: 6 - Commenti: 0


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Premio Nobel per la Pace a Juan Manuel Santos

Il premio Nobel per la Pace 2016 è stato assegnato al presidente della Colombia, Juan Manuel Santos, per il suo impegno nell’aver ottenuto uno storico accordo di pace con le FARC (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia) ponendo fine a oltre cinquant’anni di conflitto.

 

Sessantacinque anni, originario di Bogotà, leader del Partido de la U (centro-destra), Santos è presidente della Colombia dall’agosto 2010. Avviando nel 2012 il processo di dialogo con le FARC, Santos ha dimostrazione volersi avvicinare ai movimenti progressisti del Paese che da tempo chiedevano uno sforzo del governo nazionale per porre la parola fine sulla guerra civile. Con lui le negoziazioni sono state le più fruttuose di sempre: i guerriglieri hanno accettato di deporre le armi, di abbandonare il narcotraffico e di trasformarsi in un partito politico. Il governo in cambio ha accettato di varare una riforma agraria per garantire loro un più facile reintegro nella società.

 

La bocciatura dell’intesa al referendum popolare del 2 ottobre, in cui ha vinto il fronte del no con il 50,2% dei voti guidato dall’ex presidente Alvaro Uribe, costringerà adesso il governo e gli ex guerriglieri rappresentati dal leader Rodrigo Londoño a ridiscutere l’accordo tenendo conto del parere delle opposizioni. Ma assegnando il Nobel per la Pace a Santos, il comitato organizzatore del premio spera che dal percorso tracciato dal presidente colombiano non si torni indietro.

 

Santos_FARC(Cartagena, 26 settembre 2016: Santos e il leader delle FARC Londoño firmano l’accordo di pace)

 

Chi è Juan Manuel Santos (secondo l’Enciclopedia Treccani)

Discendente da una influente famiglia di editori della carta stampata, laureato in economia e business administration, giornalista, dal 1992 al 1994 fu ministro del Commercio e nel 2000 dell’Economia. Uscito dal Partito liberale (2004), si avvicinò al presidente Á. Uribe, che nel 2006 lo nominò ministro della Difesa, incarico nel quale ha acquisito grande notorietà per i successi riportati nel contrasto alle FARC (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia). Fra i fondatori del PSUN (Partido Social de Unidad Nacional, 2005), nel 2010, al secondo turno, è stato eletto presidente della Colombia con il 69% dei voti. Alle consultazioni legislative tenutesi nel marzo 2014 l’uomo politico ha conservato la maggioranza relativa in Parlamento ottenendo 45 dei 102 seggi del Senato, mentre al primo turno delle presidenziali svoltosi nel maggio successivo ha ricevuto il 25,6% dei consensi contro il 29,2% dell’avversario Ó.I. Zuluaga del Centro Democrático, che ha sconfitto al ballottaggio tenutosi nel mese successivo, ricevendo il 45% dei consensi ed essendo riconfermato nella carica presidenziale. Sostenitore della necessità di concludere il già avviato processo di pace con l’organizzazione guerrigliera FARC, a Cuba nel giugno 2016 l’uomo politico è stato il firmatario, insieme al comandante Londoño, di uno storico accordo per il cessate il fuoco bilaterale e definitivo e il disarmo dei ribelli, mettendo fine a un conflitto che ha visto governo e combattenti contrapposti dal 1964.

 

La strada verso la pace in Colombia

Dopo la vittoria del no al referendum sull’accordo di pace del 2 ottobre, il governo di Bogotà proverà adesso a tenere in piedi il processo di riconciliazione con gli ex guerriglieri. Missione complicata per una serie di motivi. La bassa affluenza registrata al voto del 2 ottobre (solo il 37,43% degli aventi diritto si è recato alle urne, anche se l’astensionismo è un fattore frequente nelle elezioni colombiane), ha dimostrato il generale disinteresse del popolo nei confronti dei negoziati. Uscito politicamente sconfitto dal confronto con gli elettori, il presidente Juan Manule Santos dovrà adesso tentare di riformulare i termini dell’accordo con il leader del fronte del no, l’ex presidente Alvaro Uribe a capo del partito conservatore Centro Democratico.

 

FARC

 

Si tratta di un percorso pieno di ostacoli. Mettere mano alla “giurisdizione speciale”, in base alla quale gli ex combattenti che decideranno di pentirsi potranno essere reintegrati nella società civile senza passare per alcuna pena carceraria, e rivedere al ribasso la quota di seggi garantita di diritto ai rappresentanti delle FARC nel prossimo parlamento (attualmente fissata a dieci, cinque per camera), accontentando tutte le parti in causa non sarà semplice.

 

COLOMBIA FARC VITTIME

 

Il primo incontro, promettono dal governo, si terrà a breve. La squadra scelta da Santos sarà composta dal capo negoziatore Humberto de la Calle (le cui dimissioni sono state respinte dal presidente), dal ministro degli Esteri Maria Angela Holguin e dal ministro della Difesa Luis Carlos Villegas. Uribe ha indicato invece quali portavoce del Centro Democratico Oscar Ivan Zuluaga, Carlos Holmes Trujillo e Ivan Duque.

 

Questa è la situazione attuale di un post referendum che in pochi a livello internazionale si sarebbero aspettati. L’unica certezza, al momento, è il mantenimento del cessate il fuoco bilaterale che governo e FARC avevano concordato a fine agosto.

 

I nodi da sciogliere, invece, sono molti, a cominciare dai punti più critici che si sono rivelati decisivi per la bocciatura dell’accordo. Punti su cui Uribe ha montato una campagna elettorale vincente, scuotendo le paure dell’elettorato conservatore e non solo. Lo spauracchio di un avvento del “castrochavismo” in salsa boliviana, così come lo ha definito El País, nel caso di vittoria del sì al referendum, è stato agitato ad arte da Uribe. L’ex presidente ha avuto gioco facile nel mettere in discussione l’intero impianto di “giurisdizione speciale” su cui governo e FARC avevano raggiunto un compromesso, in base al quale i guerriglieri che di fronte a un tribunale di pace dimostreranno di essersi realmente pentiti, ammettendo le proprie responsabilità e fornendo aiuti concreti alle indagini sui crimini commessi, otterranno forti sconti di pena. Il timore di un’impunità generale, diffuso tra i famigliari delle vittime, alla fine ha prevalso. Così come è stata respinta di netto la prospettiva di assistere a una veloce ascesa politica di Rodrigo Londoño (detto Timochenko) e degli altri leader delle FARC dopo le presidenziali del 2018.

 

Altro aspetto molto importante ai fini della vittoria del no è legato ai timori sugli effetti di un altro dei sei punti dell’accordo, vale a dire la riforma agraria. Ridiscutere diritti che in questi decenni di conflitto sono stati acquisiti arbitrariamente da molti proprietari terrieri, così come in buona parte da apparati delle forze armate che in questi decenni di guerra hanno preso possesso di immense proprietà, ha spinto diverse fasce dell’elettorato che fa della terra la propria unica ricchezza a votare per il no. È proprio su uno dei principi alla base della guerriglia di ispirazione marxista delle FARC, cioè la redistribuzione equa delle terre contro lo strapotere dei latifondisti, che si è infranto il sì all’intesa di pace. Insomma, la difesa della proprietà privata ha prevalso nettamente sulla spinta in senso socialista che avrebbe innescato l’approvazione dell’accordo.

 

Quale futuro per i guerriglieri?

In attesa di conoscere gli sviluppi dei primi incontri tra i rappresentanti del governo e delle opposizioni, sul futuro della Colombia pendono ovviamente gli interrogativi sul destino delle FARC e degli altri gruppi guerriglieri ancora oggi attivi nel Paese. Azioni già avviate da parte delle FARC, come la consegna di parte dell’arsenale militare e la promessa di cedere una fetta del patrimonio finanziario per iniziare a risarcire i famigliari delle vittime del conflitto, rischiano di interrompersi bruscamente.

 

COLOMBIA FARC: mappa

 

Le Nazioni Unite, presenti da tempo in Colombia per vigilare sull’andamento del processo di riconciliazione, si aspettano però un cambio di passo immediato. Altrimenti il rischio che i riflettori della comunità internazionale, così attenti a inquadrare ogni momento della firma di Cartagena, si spostino verso altre crisi è concreto. La domanda che però tutti si pongono adesso è quanto le FARC saranno disposte a concedere di ciò che finora avevano ottenuto dal presidente Santos. Se non arriveranno segnali concreti con l’inizio delle nuove trattative, non è da escludere che la situazione possa degenerare gradualmente. Molti guerriglieri, vista sfumare la promessa di un reinserimento nella società, potrebbero decidere di passare nelle fila di altre organizzazioni paramilitari o criminali. Tra queste, quelle più attive nel reclutamento degli “scontenti” si chiamano Bacrim (Bandas emergentes en Colombia), sorte dallo scioglimento dei paramilitari delle AUC (Autodefensas Unidas de Colombia) e mostratesi capaci negli ultimi anni di prendere possesso di alcune delle rotte del narcotraffico che attraversano la Colombia lasciate incustodite dalle FARC.

 

Un discorso a parte meriterebbe poi l’ELN (Esercito di Liberazione Nazionale), il secondo gruppo guerrigliero più consistente del Paese, che all’ombra dell’accordo delle FARC si è mosso negli ultimi mesi per strappare anch’esso un’intesa. Ma con la vittoria del no e il ritorno prepotente di Uribe nella scena politica nazionale, per i guerriglieri dell’ELN si prevede una nuova lunga fase ai margini delle trattative che contano.

 

(Rocco Bellantone)

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La ricetta della focaccia alta e morbida per la merenda dei bambini

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Come si prepara la focaccia alta e morbida per la merenda dei bambini a casa o a scuola. [...]

Autore: WhatsUp | Categoria: Salute e Alimentazione | Voti: 1 - Commenti: 0


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Per cos’è il referendum?

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Il Foglio di venerdì ha dedicato una pagina alle riflessioni di Adriano Sofri – intitolate “Sulle divergenze tra il compagno Zagrebelsky e noi” – sull’ampiezza dei temi introdotti da alcuni sostenitori del No al referendum nel dibattito sul referendum stesso, con postilla personale sulla propria condizione di non votante. A un certo punto Zagrebelsky ha detto a Renzi (più o meno, non ho preso appu [...]

Autore: ilPostino | Categoria: Politica | Voti: 6 - Commenti: 0


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Afghanistan: la guerra degli USA quindici anni dopo

di Rocco Bellantone

@RoccoBellantone

 

Il 7 ottobre del 2001 gli Stati Uniti invasero l’Afghanistan, poco meno di un mese dopo l’attacco dell’11 settembre alle Torri Gemelle. Quella che doveva essere una guerra lampo per stanare e uccidere il capo di Al Qaeda Osama Bin Laden, accusato dall’Amministrazione di George W. Bush di essere il mandante degli attentati, si è rapidamente trasformata in un calvario che ancora oggi, a distanza di quindici anni, continua a mietere terrore e vittime.

 

In questo lasso di tempo ci sono stati avvicendamenti tanto alla Casa Bianca quanto al governo di Kabul e le operazioni militari hanno assunto nomi sempre più suggestivi. Ma l’entità della minaccia – i talebani del Mullah Omar, ritenuti complici di Bin Laden e Al Qaeda nell’attacco al cuore dell’America – non è stata affatto debellata. Bush è stato sostituito da Barack Obama, l’Afghanistan ha eletto due presidenti – Hamid Karzai prima e Ashraf Ghani poi – mentre le missioni condotte dalla coalizione internazionale ISAF (International Security Assistance Force) e dagli USA – “Infinite Justice”, “Enduring Freedom”, “Operation Freedom’s Sentinel”, “Resolute Support” – si sono susseguite accompagnate ogni volta da promesse di pace, ingenti finanziamenti e, soprattutto, dall’invio di miglia di soldati. Tutto ciò, però, non è bastato per cambiare le cose.

 

L’exit strategy annunciata da Obama già in occasione dell’inizio del suo primo mandato di presidente nel 2008 è stata ritrattata annualmente e oggi si presenta come un percorso più che mai incerto. Sebbene dal picco di 100.000 soldati americani toccato nel 2012 si sia passati ai circa 9.000 del 2016, allo stato attuale né il governo del presidente Ashraf Ghani né le sue fragile forze di sicurezza danno garanzia di stabilità. L’Afghanistan di oggi per gli USA resta un pantano con cui dovrà fare i conti anche il futuro inquilino della Casa Bianca dopo le elezioni presidenziali del prossimo 8 novembre.

 

Nel diario di questa guerra infinita, la pagina più dolente riguarda ovviamente quella delle vittime. Dal 2001 sono stati uccisi oltre 3.500 soldati della coalizione internazionale (più di 2mila dei quali americani) e altri 15.000 soldati afghani. Gli Stati Uniti, in particolare, hanno continuato a piangere morti anche negli ultimi mesi: l’ultimo è stato il sergente Adam S. Thomas, 31 anni, ucciso nella provincia di Nangarhar dall’esplosione di un ordigno artigianale. Ai soldati morti si aggiungono le vittime tra i civili: le cifre oscillano da un minimo di 31.000 a un massimo di 170.000. Mentre si stima che i talebani uccisi siano stati tra i 25.000 e i 40.000.

 

Talebani

 

 

Altri numeri impressionanti riguardano i finanziamenti devoluti alla ricostruzione dell’Afghanistan del dopo conflitto, nonostante la guerra contro i talebani sia ancora in corso. Dal 2002 secondo l’agenzia Reuters solo gli Stati Uniti hanno speso più di 60 miliardi di dollari per addestrare ed equipaggiare le forze di sicurezza afgane. All’ultima conferenza dei donatori internazionali tenutasi nel corso di questa settimana in Austria, Stati Uniti e Unione Europea hanno promesso altri 15 miliardi di dollari per assistere il governo del presidente Ghani nel corso dei prossimi quattro anni. Ma non saranno questi finanziamenti a fermare i talebani.

 

Le tensioni interne nell’organizzazione, scaturite dopo l’annuncio della morte del  nel luglio del 2015 e a seguito della sua tormentata successione (prima con Akhtar Mohammad Mansour, ucciso da un drone USA in Pakistan, poi con Haibatullah Akhundzada), non hanno impedito ai talebani di colpire indistintamente civili, esercito afghano e obiettivi occidentali a Kabul. Inoltre, il business del traffico di oppio nelle loro mani, sul cui contrasto gli USA hanno investito altre ingenti somme (circa 8,4 miliardi di dollari) in questi quindici, è in continua a crescita. Rispetto a prima dell’invasione americana, oggi in Afghanistan viene prodotto oltre il 90% dell’eroina trafficata in tutto il mondo e nel 2016 – secondo l’UNODC (Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine) – la produzione potrebbe superare i numeri record registrati nel 2014, quando gli ettari di terreno coltivati furono oltre 200.000.

 

Mullah Omar(Una delle poche immagini in circolazione dello storico leader dei talebani Mullah Omar)

 

Il quadro è ulteriormente peggiorato dalla ramificazione sempre più capillare nel Paese dello Stato Islamico, che punta a formare in Asia Centrale un emirato islamico del Khorasan (l’antico nome della provincia più orientale dell’impero persiano, che a oggi si estende dal nord-est dell’Iran al subcontinente indiano passando per Afghanistan, Pakistan Uzbekistan, Turkmenistan e Tajikistan).

 

Tutto ciò fa dell’Afghanistan una polveriera in cui anche l’Italia, a seguito degli ultimi accordi con gli Stati Uniti, si sta assumendo una parte consistente di rischi. Il nostro Paese ha infatti accolto la richiesta degli Stati Uniti di mantenere almeno fino alla fine del 2016 le proprie truppe in Afghanistan oltre il termine previsto dell’ottobre 2015. Ad oggi le nostre forze armate impiegano uno dei contingenti più numerosi all’estero (secondo solo all’Iraq). Tra Kabul ed Herat sono operativi 950 nostri soldati con compiti di addestramento nell’ambito della nuova missione “Resolute Support”, subentrata all’inizio del 2015 a ISAF. La speranza è che, ovviamente, non ci siano altri morti: in questa guerra quelli italiani sono stati finora 55.

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Fonte: http://www.lookoutnews.it/afghanistan-usa-talebani-guerra/

ONU in cerca di credibilità: il difficile compito che aspetta Antonio Guterres

di Luciano Tirinnanzi

@luciotirinnanzi

 

Quella che Antonio Guterres si appresta ad affrontare alla guida della segreteria generale delle Nazioni Unite è una sfida per molti aspetti proibitiva. L’ex primo ministro portoghese dovrà infatti provare a far dimenticare il fallimentare doppio mandato del suo predecessore, il sudcoreano Ban Ki Moon, il quale soprattutto negli ultimi anni si è lasciato sfuggire di mano uno dopo l’altro tutti i dossier caldi della politica internazionale senza lasciare mai il segno: le guerre in Siria e Libia, la crisi in Ucraina, il deterioramento dei rapporti diplomatici tra Stati Uniti e Russia. Ma, soprattutto, Antonio Guterres dovrà dimostrare al mondo che l’Organizzazione che andrà a presiedere ufficialmente dal primo gennaio del 2017 ha ancora senso di esistere. E tra i primi appelli a cui dovrà rispondere ci sono quelli che lui stesso fino a poche settimane fa ha lanciato all’Occidente, in veste di capo dell’UNHCR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, sulla sciagurata gestione dell’emergenza dei migranti in fuga dai conflitti in Medio Oriente e Nord Africa.

 

È paradossale dirlo, ma osservando l’immagine odierna sempre più sbiadita delle Nazioni Unite è davvero difficile dare torto a Susan Rice, la quale nel 2013, fresca di nomina a consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, non aveva lesinato parole forti nei confronti del Palazzo di Vetro di New York: “la storia giudicherà duramente” l’inazione dell’ONU sulla Siria disse all’epoca.

 

Eppure, questa istituzione esiste proprio per tentare ogni via diplomatica possibile per evitare guerre e risolvere contenziosi internazionali e la Rice, che dell’ONU era stata ambasciatrice degli Stati Uniti prima di assumere l’incarico di consigliere della sicurezza nazionale nella seconda Amministrazione Obama, lo dovrebbe saper bene. Se poi, invece, si vuol sostenere che l’ONU sia un’istituzione inutile e dispendiosa e che sarebbe meglio fargli fare la fine della Società delle Nazioni, questo è un altro discorso.

 

Con buona pace di Susan Rice, infatti, la storia ha già giudicato in abbondanza l’inefficienza della burocrazia delle Nazioni Unite, in alcuni casi al limite del criminale: a testimoniarlo ci sono molte voci, dal milione di morti in Rwanda ai massacrati di Srebrenica. Ma ancora andiamo avanti con riunioni e riunioni nel Palazzo di Vetro, come se quello fosse l’unico salotto dove poter discutere di politica internazionale.

 

Come è strutturata l’ONU

Sarebbe bene ricordare che l’architettura ONU prevede due organi principali: l’Assemblea generale, dove siedono tutte le nazioni aderenti all’Organizzazione, e il Consiglio di Sicurezza, dove siedono soltanto 15 membri, 5 dei quali permanentemente.

 

Mentre l’Assemblea disserta sui più svariati argomenti (Disarmo e Sicurezza; Economia e Finanza; questioni sociali, legali e amministrative), il Consiglio di Sicurezza provvede al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Ma le regole d’ingaggio del Consiglio prevedono che ogni decisione messa al voto – vedi l’autorizzazione all’uso della forza – viene adottata solo nel caso in cui almeno 9 membri su 15 sono in accordo. Eccezion fatta per il diritto di veto, che ognuno dei 5 membri permanenti ha il diritto di apporre per bloccare qualsiasi risoluzione non condivida. Ne basta uno perché il voto sia respinto.

 

Ban Ki-moon (Ban Ki Moon, segretario generale dell’ONU uscente)

 

 

Ora, considerato che i cinque membri permanenti sono Regno Unito, Cina, Francia, Russia e Stati Uniti, si può ben comprendere l’inutilità di questa organizzazione. Quante volte sono in accordo Stati Uniti e Russia? O Stati Uniti e Cina? Meno di una su cento. Come nel caso siriano: come fa Susan Rice a sostenere che “la storia giudicherà duramente l’inazione ONU” se quella organizzazione è concepita proprio per l’inazione? Ma soprattutto: vogliamo parlare del fatto che i principali Paesi trafficanti di armi nel mondo sono proprio gli stessi cinque membri permanenti dell’ONU?

 

Quanto costa l’ONU

Si calcola che, nel complesso, il mantenimento del sistema delle Nazioni Unite superi ogni anno i 15 miliardi di dollari (il bilancio-base era 1,1 miliardi di dollari nel 1993). Una parte delle spese, quelle amministrative, vengono interamente compensate dalle quote obbligatorie che ciascun Paese aderente è obbligato a versare, e che coprono circa un terzo del totale (il regular budget 2012/2013 è pari a 5,15 mld dollari). Il principio contributivo è proporzionale: ogni Stato contribuisce in base alle proprie possibilità e in misura non inferiore allo 0,01% e non superiore al 22% del budget totale: il contributo si basa su un calcolo che considera il Pil dello Stato, la sua popolazione e il suo livello di debito (fortunatamente per l’Italia, in questo caso).

 

ONU NEW YORK (New York, la riunione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 13 giugno 2016)

 

Il nostro Paese è però il sesto principale contributore del bilancio ordinario delle Nazioni Unite, con una quota che nel 2011 era pari al 5%. Per fare un confronto tra i membri del Consiglio di Sicurezza (dove l’Italia non siede): gli Stati Uniti contribuiscono per il 22%, Francia e Regno Unito per il 6%, la Cina per il 3% e la Russia per il 2%. A queste spese, però, vanno poi aggiunte le spese per le operazioni di peacekeeping, la tutela dei diritti umani, eccetera.

 

Insomma, è possibile che la storia giudichi duramente anche i soggetti che spendono – male e senza risultati apprezzabili – i soldi dei contribuenti, che tutto vogliono tranne che moltiplicare organi decisori i quali, per loro stessa natura, non risolveranno mai una guerra? Visto che, casomai, la promuovono?

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Brigate Rosse e Stato Islamico: qual è la differenza?

Il Generale Mario Mori risponde alle domande dei lettori, dei curiosi e dei frequentari dei social network sui più importanti temi che intercettano i dubbi e le paure degli italiani: dal terrorismo islamico alla percezione della sicurezza, dalle attività dei servizi segreti alla crisi nel Mediterraneo. Un’iniziativa volta a sensibilizzare gli utenti sulla corretta conoscenza dello stato dell’arte del mondo della sicurezza. In questa puntata la risposta alla domanda: “Che differenza c’è tra il terrorismo delle Brigate Rosse e il terrorismo islamico?”.

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Gestione dispositivi Android: come ritrovare lo smartphone

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«Le dimissioni dal notaio? Una decisione del partito»

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Valeria Baglio, consigliera comunale del Partito Democratico ed ex presidente dell’Assemblea Capitolina durante la scorsa consiliatura, in un’intervista al Messaggero oggi racconta cose molto interessanti su come andò nell’occasione in cui i consiglieri PD, insieme ad altri dell’opposizione, si presentarono per dare le dimissioni dal notaio allo scopo di far cadere il sindaco Ignazio Marino:Oggi c [...]

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Tu sì que vales cresce, stravince e batte Roberto Bolle

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Dietro la nascita del 5 Stelle ci sono degli equivoci, e dei personaggi equivoci. Chi sta dietro Grillo si è abbastanza impegnato, coinvolgendo i livelli più alti dei 5 Stelle, in una frequentazione abituale di luoghi, ambasciate e consolati americani dove ricevono indicazioni che purtroppo poi mettono in pratica. Quindi il problema è che noi in Italia siamo sovragestiti. Non mi riferisco a tutto [...]

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Morso da un Ragno Violino ad Avezzano, Uomo All’Ospedale

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«Per una nuova legge elettorale non serve un governo, nemmeno un governo di scopo, basta il Parlamento». È quanto dichiarato dal vicepresidente della Camera Luigi Di Maio ad Acerra, in provincia di Napoli, dove ha partecipato ad una fiaccolata organizzata da attivisti per l’ambiente contro i roghi tossici nella Terra dei Fuochi. Il membro del direttorio M5S ha ribadito la linea contraria ad accord [...]

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