di Rocco Bellantone
@RoccoBellantone
Il 7 ottobre del 2001 gli Stati Uniti invasero l’Afghanistan, poco meno di un mese dopo l’attacco dell’11 settembre alle Torri Gemelle. Quella che doveva essere una guerra lampo per stanare e uccidere il capo di Al Qaeda Osama Bin Laden, accusato dall’Amministrazione di George W. Bush di essere il mandante degli attentati, si è rapidamente trasformata in un calvario che ancora oggi, a distanza di quindici anni, continua a mietere terrore e vittime.
In questo lasso di tempo ci sono stati avvicendamenti tanto alla Casa Bianca quanto al governo di Kabul e le operazioni militari hanno assunto nomi sempre più suggestivi. Ma l’entità della minaccia – i talebani del Mullah Omar, ritenuti complici di Bin Laden e Al Qaeda nell’attacco al cuore dell’America – non è stata affatto debellata. Bush è stato sostituito da Barack Obama, l’Afghanistan ha eletto due presidenti – Hamid Karzai prima e Ashraf Ghani poi – mentre le missioni condotte dalla coalizione internazionale ISAF (International Security Assistance Force) e dagli USA – “Infinite Justice”, “Enduring Freedom”, “Operation Freedom’s Sentinel”, “Resolute Support” – si sono susseguite accompagnate ogni volta da promesse di pace, ingenti finanziamenti e, soprattutto, dall’invio di miglia di soldati. Tutto ciò, però, non è bastato per cambiare le cose.
L’exit strategy annunciata da Obama già in occasione dell’inizio del suo primo mandato di presidente nel 2008 è stata ritrattata annualmente e oggi si presenta come un percorso più che mai incerto. Sebbene dal picco di 100.000 soldati americani toccato nel 2012 si sia passati ai circa 9.000 del 2016, allo stato attuale né il governo del presidente Ashraf Ghani né le sue fragile forze di sicurezza danno garanzia di stabilità. L’Afghanistan di oggi per gli USA resta un pantano con cui dovrà fare i conti anche il futuro inquilino della Casa Bianca dopo le elezioni presidenziali del prossimo 8 novembre.
Nel diario di questa guerra infinita, la pagina più dolente riguarda ovviamente quella delle vittime. Dal 2001 sono stati uccisi oltre 3.500 soldati della coalizione internazionale (più di 2mila dei quali americani) e altri 15.000 soldati afghani. Gli Stati Uniti, in particolare, hanno continuato a piangere morti anche negli ultimi mesi: l’ultimo è stato il sergente Adam S. Thomas, 31 anni, ucciso nella provincia di Nangarhar dall’esplosione di un ordigno artigianale. Ai soldati morti si aggiungono le vittime tra i civili: le cifre oscillano da un minimo di 31.000 a un massimo di 170.000. Mentre si stima che i talebani uccisi siano stati tra i 25.000 e i 40.000.
Altri numeri impressionanti riguardano i finanziamenti devoluti alla ricostruzione dell’Afghanistan del dopo conflitto, nonostante la guerra contro i talebani sia ancora in corso. Dal 2002 secondo l’agenzia Reuters solo gli Stati Uniti hanno speso più di 60 miliardi di dollari per addestrare ed equipaggiare le forze di sicurezza afgane. All’ultima conferenza dei donatori internazionali tenutasi nel corso di questa settimana in Austria, Stati Uniti e Unione Europea hanno promesso altri 15 miliardi di dollari per assistere il governo del presidente Ghani nel corso dei prossimi quattro anni. Ma non saranno questi finanziamenti a fermare i talebani.
Le tensioni interne nell’organizzazione, scaturite dopo l’annuncio della morte del nel luglio del 2015 e a seguito della sua tormentata successione (prima con Akhtar Mohammad Mansour, ucciso da un drone USA in Pakistan, poi con Haibatullah Akhundzada), non hanno impedito ai talebani di colpire indistintamente civili, esercito afghano e obiettivi occidentali a Kabul. Inoltre, il business del traffico di oppio nelle loro mani, sul cui contrasto gli USA hanno investito altre ingenti somme (circa 8,4 miliardi di dollari) in questi quindici, è in continua a crescita. Rispetto a prima dell’invasione americana, oggi in Afghanistan viene prodotto oltre il 90% dell’eroina trafficata in tutto il mondo e nel 2016 – secondo l’UNODC (Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine) – la produzione potrebbe superare i numeri record registrati nel 2014, quando gli ettari di terreno coltivati furono oltre 200.000.
(Una delle poche immagini in circolazione dello storico leader dei talebani Mullah Omar)
Il quadro è ulteriormente peggiorato dalla ramificazione sempre più capillare nel Paese dello Stato Islamico, che punta a formare in Asia Centrale un emirato islamico del Khorasan (l’antico nome della provincia più orientale dell’impero persiano, che a oggi si estende dal nord-est dell’Iran al subcontinente indiano passando per Afghanistan, Pakistan Uzbekistan, Turkmenistan e Tajikistan).
Tutto ciò fa dell’Afghanistan una polveriera in cui anche l’Italia, a seguito degli ultimi accordi con gli Stati Uniti, si sta assumendo una parte consistente di rischi. Il nostro Paese ha infatti accolto la richiesta degli Stati Uniti di mantenere almeno fino alla fine del 2016 le proprie truppe in Afghanistan oltre il termine previsto dell’ottobre 2015. Ad oggi le nostre forze armate impiegano uno dei contingenti più numerosi all’estero (secondo solo all’Iraq). Tra Kabul ed Herat sono operativi 950 nostri soldati con compiti di addestramento nell’ambito della nuova missione “Resolute Support”, subentrata all’inizio del 2015 a ISAF. La speranza è che, ovviamente, non ci siano altri morti: in questa guerra quelli italiani sono stati finora 55.
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Fonte: http://www.lookoutnews.it/afghanistan-usa-talebani-guerra/
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