di Luciano Tirinnanzi
@luciotirinnanzi
Due condanne contro la jihad indonesiana hanno messo in carcere due sospetti fiancheggiatori dello Stato Islamico che il 14 gennaio 2016 hanno seminato il panico nelle strade di Giacarta, quando il centro della capitale è stato colpito da una serie di attacchi kamikaze, esplosioni e sparatorie portati da un commando composto da circa dieci uomini, cinque dei quali sono stati uccisi.
Ma quel che colpisce di queste sentenze – Dodi Suridi, 23 anni, sostenitore dello Stato Islamico, è stato condannato a dieci anni di reclusione per aver confezionato una delle bombe utilizzate il giorno dell’attentato, mentre Ali Hamka, 48 anni, è stato condannato a quattro anni per aver fornito di armi e munizioni per l’attacco – è la serenità con la quale entrambi hanno accolto il verdetto. Sorridenti, orgogliosi, si sono presentati in aula alzando a favore di telecamera il dito al cielo in riferimento ad Allah, un tipico gesto degli islamisti che intendono indicare il loro rispetto e la loro fede nell’unico dio.
Dodi Suridi (foto in apertura) ha dichiarato di accettare la condanna perché fa parte “del rischio di essere un terrorista”, e Ali Hamka (nella foto in basso) mentre veniva portato via dalla corte ha gridato “Allahu akbar”, Dio è grande, e ha sorriso ai giornalisti presenti in tribunale, consapevole di quanto vere fossero le parole del giudice Achmad Fauzi, quando ha dichiarato che le azioni di questi uomini avevano “disturbato la comunità e scosso la vita della nostra nazione”.
(Ali Hamka)
Il comportamento temerario dei due terroristi è l’ennesima dimostrazione dell’orgoglio folle che accompagna i “martiri di dio” nel loro percorso verso la morte o, quantomeno, il carcere duro. Sembra che per questi soggetti valga più una condanna che un’assoluzione. Il perché gli psicologi provano a spiegarlo da tempo, arrivando a conclusioni tuttavia parziali.
Corrado De Rosa, psichiatra e autore del libro Nella mente di un jihadista (Corriere della Sera), spiega così laloro psicologia: “Va letta in una logica di gruppo: è impossibile separare le condotte dei jihadisti dal contesto che le ha determinate. Uno dei loro meccanismi di difesa è la proiezione. Sono mossi da un narcisismo insano che spinge alla ricerca di gratificazione a tutti i costi”.
Il terrorismo nel Sud-Est asiatico
Mentre Suridi e Hamka comparivano in tribunale, a Giacarta un uomo armato di machete e di bandiera dello Stato Islamico si è scagliato contro alcuni ufficiali di polizia, prima di essere da loro ucciso, a riprova di come la questione terrorismo islamico sia una sfida ormai quotidiana.
In Indonesia, la nazione con il più alto numero di musulmani al mondo, prevale un Islam moderato. Anche se le analisi dei flussi di foreign fighter verso Siria e Iraq degli ultimi mesi hanno confermato la presenza di diversi militanti indonesiani. Anche Malesia e Singapore si trovano oggi a fronteggiare una minaccia islamista che, sebbene non ancora fuori controllo, dimostra come il problema sia concreto anche nel Sud-Est asiatico.
(Abu Bakar Bashir, leader di Jemaah Islamiya)
Secondo le divisioni antiterrorismo dell’Indonesia e della vicina Malesia, negli ultimi tempi la leadership di Jemaah Islamiya avrebbe avviato un progetto d’integrazione con il gruppo con base nelle Filippine Abu Sayyaf al fine di creare una fazione “distaccata” dello Stato Islamico nel Sud-Est asiatico, sfruttando i diffusi focolai di tensione nazionalista ed etnico-religiosa presenti nella regione. Ne sarebbe promotore un ex docente universitario, Mahmud Ahmad, già finito nella lista nera delle autorità malesi dall’aprile del 2014. Altra figura ricercata dalle autorità indonesiane è il militante islamista Abu Wardah, conosciuto negli ambienti radicali come “Santoso”. Rifugiato nella giungla dell’isola di Sulawesi, l’uomo è considerato tra i sostenitori più influenti dello Stato Islamico in Indonesia.
L’ultimo attacco terroristico a Giacarta si era verificato nel 2009, quando vennero presi di mira gli hotel Marriott e Ritz (9 morti). In precedenza, nell’ottobre del 2002, sull’isola di Bali nella zona turistica di Kuta tre esplosioni simultanee causarono la morte di 202 persone. All’epoca i sospetti caddero immediatamente sul gruppo islamista Jemaah Islamiya, il cui leader, l’influente Abu Bakar Bashir, ha giurato fedeltà al Califfo Abu Bakr Al Baghdadi tradendo la storica alleanza con Al Qaeda.
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Fonte: http://www.lookoutnews.it/indonesia-isis-terroristi-condannati/
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