di Priscilla Inzerilli
Il “divorzio” dagli USA annunciato dal presidente filippino Rodrigo Duterte durante la sua visita in Cina tra il 18 e il 21 ottobre, la prima dopo la sentenza della Corte Permanente dell’Aia dello scorso luglio che aveva dato ragione a Manila negando ogni “diritto storico” della Cina sulle acque del Mar Cinese Meridionale, è stata rettificata pochi giorni fa. In perfetto “stile Duterte”, ad affermazioni controverse il presidente ha fatto seguire puntali smentite, secondo un copione a cui l’audience internazionale sembra essersi ormai abituata.
Il 21 ottobre il leader delle Filippine ha chiarito, usando toni più concilianti, che annunciando la sua “separazione” dagli Stati Uniti non intendeva recidere i legami con lo storico alleato, ma solo perseguire una politica estera più indipendente, rafforzando le relazioni con il vicino cinese. Parlare di separazione equivarrebbe a tagliare le relazioni diplomatiche, ma “è nel migliore interesse dei miei connazionali mantenere questa relazione”, ha affermato Duterte durante una conferenza stampa.
Nessuna notifica ufficiale riguardante modifiche o interruzioni nei rapporti bilaterali tra i due Paesi è in ogni caso pervenuta a Washington, come ha avuto modo di confermare il portavoce della Casa Bianca Eric Schultz, il quale non ha mancato inoltre di ricordare come gli USA rappresentino uno tra i partner economici più importanti per le Filippine, con investimenti diretti esteri per un ammontare di 4,7 miliardi di dollari.
Il volume delle attività di import-export con Pechino è sinora risultato poco significativo, se paragonato a quello tra le Filippine e gli altri Paesi asiatici facenti parte del “blocco” filo-USA, tra cui il Giappone, primo partner commerciale di Manila, in testa alla Cina e agli stessi Stati Uniti.
Eppure, considerando quanto accaduto in occasione del forum Cina-Filippine dedicato al business, nel corso del quale era stato annunciato il presunto “divorzio”, è possibile intravedere una “virata” da parte di Duterte – se non politica – sicuramente di natura economica. Devono essere stati i 24 miliardi di dollari di finanziamenti e investimenti cinesi e la possibilità di poter siglare con Pechino importanti accordi in settori come infrastrutture, commercio e turismo, ad aver fatto gola al presidente Duterte, e alle centinaia di imprenditori filippini presenti al forum, spingendolo a definire la Cina non un semplice Paese amico, ma “un fratello di sangue”.
L’eccessivo “calore” che Duterte ha manifestato nei confronti di Pechino preoccupa non poco Washington, soprattutto alla luce degli ultimi colloqui intercorsi tra il leader filippino e il presidente cinese Xi Jinping, con il quale è stata convenuta l’esigenza di focalizzarsi “sulla necessità di rafforzare la cooperazione”, lasciando da parte le reciproche differenze; ventilando inoltre la possibilità di arrivare a una risoluzione della controversia legata al diritto di sovranità sul cosiddetto Scarborough Shoal, un atollo di piccole dimensioni distante 250 km dalle coste filippine e 900 km da quelle cinesi, situato però in un’area del Mar Cinese Merdionale ricca di risorse naturali ed energetiche, attraverso la quale ogni anno transita un volume di merci del valore pari a circa 5mila miliardi di dollari.
Il repentino “invaghimento” del presidente Duterte nei confronti di Pechino può essere dunque verosimilmente considerato un elemento fondamentale nella ridefinizione dei futuri equilibri tra le potenze che si contendono il “pivot” della regione Asia-Pacifico. Almeno fino alla prossima smentita.
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Fonte: http://www.lookoutnews.it/filippine-cina-duterte/
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