venerdì 4 novembre 2016

Yemen, la complicata exit strategy degli USA

di Manuel Godano

 

Il bombardamento con cui i caccia sauditi lo scorso 8 ottobre hanno ucciso oltre 150 persone a Sanaa sta rendendo sempre più complicata la posizione degli Stati Uniti nel conflitto in Yemen. Secondo fonti di intelligence accreditate, l’ennesima strage che ancora una volta ha colpito per lo più civili avrebbe spinto il Pentagono a un cambio di strategia immediato, nonostante siano ormai alle porte le elezioni presidenziali del prossimo 8 novembre, giorno in cui la democratica Hillary Clinton e il repubblicano Donald Trump si contenderanno il posto di successore di Barack Obama alla Casa Bianca.

 

Il segretario della Difesa Ashton Carter ha dato mandato ai suoi funzionari che coordinano le operazioni in Yemen di agire simultaneamente in tre direzioni: fare pressione sulle forze occidentali maggiormente coinvolte nel conflitto, vale a dire Francia e Regno Unito, affinché non garantiscano più un supporto incondizionato all’Arabia Saudita; imporre all’Oman di fermare i passaggi di armi iraniane per la regione del Dhofar indirizzati agli Houthi, facendo così rientrare le tensioni tra Riad e Muscat all’interno del Consiglio di Cooperazione del Golfo; ma, soprattutto, allentare le forniture americane di armi e munizioni destinate all’esercito saudita.

 

Secondo gli ultimi aggiornamenti filtrati da fonti interne della sicurezza statunitense, i livelli di condivisione di informazioni sensibili tra la CIA e la sezione antiterrorismo dei servizi segreti sauditi, che risponde direttamente al ministro degli Interni e principe ereditario Mohammed bin Nayef, non sono mai stati così bassi dall’inizio della campagna militare saudita in Yemen iniziata nel marzo del 2015. A pagarne le conseguenze non è stato solo l’esercito regolare di Riad, ma anche la Saudi Arabian National Guard (SANG), corpo militare di punta guidato da Mutaib bin Abdullah che ha subito diverse sconfitte lungo i confini tra Arabia Saudita e Yemen. Emblematici, in tal senso, sono stati i ripetuti attacchi missilistici attraverso cui i ribelli sciiti Houthi hanno più volte colpito il quartier generale della coalizione arabo-sunnita situato a Khamis Mushait nel sud-ovest dell’Arabia Saudita.

 

Yemen_mappa

 

A stretto giro gli USA potrebbero anche optare per bloccare l’invio di informazioni (immagini satellitari e intercettazioni) al GIP (General Intelligence Presidence), la principale agenzia di intelligence saudita, ma anche gli attacchi con droni lungo le coste yemenite.

 

Quella su cui sta lavorando Carter non è una tattica priva di rischi per gli USA. Riad potrebbe infatti reagire all’interruzione della cooperazione militare ritirando quel supporto logistico sul terreno che finora ha permesso alle forze speciali americane di individuare e neutralizzare con un certo successo nel sud dello Yemen elementi chiave delle cellule di AQAP (Al Qaeda nella Penisola Araba) e dello Stato Islamico.

 

Inoltre, la volontà di puntare su una exit strategy il meno possibile “rumorosa”, lasciando che siano i sauditi e i suoi alleati regionali a venire fuori da questa crisi, apre inevitabilmente nuovi interrogativi sul futuro di un conflitto che finora, nel silenzio generale dei media internazionali, ha causato quasi 7mila morti e milioni di sfollati.

 

In queste condizioni, per lo Yemen devastato dalla guerra per procura tra Iran e Arabia Saudita, si profila inevitabilmente un futuro di Paese diviso: da una parte il nord sciita con capitale Sanaa; dall’altra il sud con capitale nella separatista Aden, dove ormai si è trasferito in pianta stabile quel che resta del governo del presidente deposto Abd Rabbo Mansour Hadi.

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Fonte: http://www.lookoutnews.it/yemen-usa-exit-strategy/

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