Spesso si legge che le più importanti gare di fondo da anni sono appannaggio di atleti africani. La notizia è corretta, ma generica. L’Africa è un continente enorme e ricco di diversità. Se si volesse circostanziare il fatto si dovrebbe aggiungere che si tratta di atleti dell’Africa Orientale. Più precisamente ancora di donne e uomini provenienti dalla Rift Valley.
Negli ultimi vent’anni, i podisti keniani e etiopi hanno dominato tutte le corse di distanza e resistenza: 1500 metri, 3000 metri, 5000 metri, 10000 metri, mezza maratona e maratona. Ed è soprattutto quest’ultima gara – considerata la regina dell’atletica leggera, non a caso per tradizione chiude il programma dei giochi olimpici – che ha messo in luce il loro strapotere.
Ora, se stringiamo lo sguardo proprio sulla maratona, potremmo ridurre ulteriormente l’area geografica da cui proviene la gran parte dei campioni. Difatti, a parte una minoranza di atleti etiopi, l’élite dei maratoneti è keniana e quasi tutti appartengono alla tribù kalenjin. È parte di una famiglia di etnie nilotiche che secoli fa si spostarono dalla valle del Nilo per occupare gli altopiani della scarpata occidentale della Rift Valley.
I kalenjin sono circa cinque milioni, meno di un nono della popolazione totale del Kenya, ma ben tre quarti dei corridori nazionali arrivano da questa tribù. Per comprendere meglio l’entità dello strapotere keniano vengono in aiuto alcuni numeri messi in evidenza dal giornalista statunitense David Epstein, autore di un libro intitolato The sport gene (Il gene dello sport): «ci sono 17 atleti statunitensi nella storia che hanno corso la maratona in meno di 2 ore e 10. Ci sono 32 kalenjin che l’hanno corsa in meno di 2 ore e 10 solamente nell’ottobre 2011».
La superiorità dei corridori di questa tribù è netta e in molti si interrogano sulle ragioni di questa supremazia. È presente tra i kalenjin un vantaggio genetico? Oppure la loro capacità di correre così forte e a lungo deriva dalle abitudini di vita? Al riguardo sono state avanzate molte ipotesi.
C’è chi sostiene che diventano grandi podisti perché, da piccoli, corrono chilometri per andare a scuola ogni giorno, scalzi. Forse c’è del vero, ma non vale per tutti. E in ogni caso questa versione suona come una leggenda occidentale che immagina sempre un’Africa povera e sventurata.
Ci sono ragioni socio-economiche: molti giovani oggi si dedicano alla corsa perché hanno compreso che è un modo per emanciparsi dalla povertà. Dopo il successo dei primi keniani sono arrivati nel Paese allenatori, sponsor e borse di studio occidentali. Questa ipotesi, però, spiega perché ci sono tanti podisti, non perché sono così forti. Del resto se improvvisamente in Slovacchia, in Finlandia o in Nuova Zelanda fosse avviato un programma per incentivare tutti i giovani a correre la maratona, al più si otterrebbe un aumento di presenze dei loro connazionali nelle gare, magari qualche atleta di vertice in più, ma non diventerebbero feudi incontrastati nella corsa di fondo.
Secondo molti il vantaggio risiede tutto nel fisico. I kalenjin vivono a oltre duemila metri sopra il livello del mare e allenarsi in altitudine permette di sviluppare un numero elevato di globuli rossi che servono per portare più ossigeno ai muscoli, un beneficio non indifferente nelle gare di lunga distanza. Poi c’è la loro struttura fisica. In genere hanno gambe più lunghe e affusolate. È un altro enorme vantaggio perché durante la corsa gli arti inferiori agiscono come dei pendoli e più pesante è il peso in fondo al pendolo più energia serve per muoverlo, quindi più fatica compie l’intero organismo. Allenatori e fisioterapisti occidentali che da anni studiano questi atleti parlano anche di piedi straordinari, elastici, forti e possenti, capaci di fornire una spinta maggiore rispetto agli altri atleti con una minore dispersione di energia, e anche di muscoli insolitamente lunghi e sviluppati sui due lati della spina dorsale.
La scienza continua a indagare ed è comprensibile perché non era mai accaduto finora che da un’area geografica così circoscritta uscisse un così alto numero di campioni in un’unica disciplina.
Come spiega Ed Caesar, autore di Due ore, un libro che affronta il tema della maratona perfetta, ossia della possibilità di infrangere la barriera dei 120 minuti per percorrere 42, 195 chilometri, se mai un giorno il successo keniano risulterà spiegabile forse questa spiegazione risiederà nell’interazione di diversi geni e di tutti gli elementi socioeconomici.
C’è un altro aspetto da indagare. Chiunque abbia corso una maratona sa che da un certo punto la gara non è più solo una sfida fisica, ma soprattutto mentale. Attorno al “muro” del trentesimo chilometro sono stati versati fiumi di inchiostro; magari per i più forti e allenati arriva attorno al trentacinquesimo, ma nessuno gli sfugge. Da quel momento si corre contro il dolore, per vincere la fatica che strazia i muscoli e la testa che non ne vuole più sapere di andare ancora avanti. Ecco, si suppone che anche qui i Kalenjin abbiano un vantaggio su tutti gli altri.
Lo statunitense John Manners, attento studioso del fenomeno keniano, avanzò qualche anno fa una teoria affascinante quanto bizzarra: i kalenjin, oltre a essere pastori abituati a una vita attiva e all’aperto, erano anche tradizionalmente dediti alle scorrerie di bestiame, che in passato potevano comportare spedizioni di oltre 160 chilometri. Altri collegano l’attitudine alla resistenza sviluppata da questa tribù ai riti di iniziazione cui sono sottoposti i giovani proprio con l’intento di insegnare loro a controllare la sofferenza. Sappiamo però che simili rituali, che rendono il dolore parte della propria cultura, sono stati diffusi, e in parte lo sono ancora, in molte aree del pianeta.
Resta infine un’ultima suggestione. La specie umana ha avuto inizio dai piedi. Le orme di G1 e G2 ne sono la prova. Due ominidi alti meno di un metro e quaranta, circa quattro milioni di anni fa, sfuggendo alle eruzioni di due vulcani a oriente di Ngorongoro, lasciarono dietro di sé una fila di impronte fossilizzate dalla cenere. Da quei due ominidi che nella Rift Valley si sono alzati in piedi e hanno cominciato a correre è cominciato tutto. Segnando il destino dell’uomo, nato per deambulare inquieto.
Cosa avranno pensato G1 e G2 mentre allungavano a terra la loro ombra e per la prima volta si libravano in volo con la forza delle sole gambe? Certamente non potevano sapere che il loro disperato tentativo di sottrarsi alla montagna di fuoco un giorno si sarebbe trasformato nella leggerezza e nella grinta di Patrick Makau, Wilson Kipsang, Geoffrey Mutai, Dennis Kipruto Kimetto. Sono solo alcuni dei più forti maratoneti keniani in circolazione, quasi nessuno ricorda i loro nomi e i loro volti. Neppure i milioni di podisti amatoriali che invadono festanti le strade delle più rinomate gare, altro aspetto singolare di uno sport che contagia sempre più persone in tutto il mondo, ma non genera icone da venerare.
C’è una storia ancestrale che svela e nega, suggerisce e nasconde. La sola cosa certa è che dopo milioni di anni continuiamo a correre.
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