di Rocco Bellantone
@RoccoBellantone
In Libia poche decine di miliziani dello Stato Islamico, probabilmente meno di un centinaio, continuano a resistere a Sirte. Nella roccaforte jihadista gli irriducibili al servizio del Califfo Abu Bakr Al Baghdadi da settimane sono rintanati nel quartiere di Ghiza Bahriya. Mercoledì 9 novembre i combattenti di Misurata, la milizia a capo dell’operazione militare “Al-Bunyan Al-Marsous” lanciata nel maggio scorso dalle forze fedeli al premier del Governo di Accordo Nazionale Fayez Serraj, hanno annunciato tramite i loro canali social di aver guadagnato ulteriore terreno e di aver ucciso cinque cecchini appostati sul tetto di un palazzo.
Ma l’avanzata dei tank tra gli edifici sventrati dai bombardamenti aerei, e i rastrellamenti casa per casa, procedono lentamente. Secondo gli esperti militari americani che monitorano da una base allestita alle porte di Sirte l’andamento delle operazioni, i miliziani jihadisti sarebbero ormai rifugiati in un’area delle dimensioni di un campo di calcio. Stanarli e ucciderli si sta rivelando però molto più complicato del previsto. Un attacco frontale metterebbe infatti a repentaglio la vita dei civili presi in ostaggio dagli uomini del Califfato, che potrebbero esserli come scudi umani o come esche per tendere nuove imboscate. Negli ultimi giorni diversi prigionieri sarebbero stati uccisi per aver tentato di fuggire di Ghiza Bahriya. Inoltre, così come già fatto nelle battaglie a difesa dei propri bastioni in Siria e Iraq, lo Stato Islamico avrebbe armato bambini per schierarli contro il nemico e dotato di cinture esplosive i suoi miliziani feriti per mandarli al martirio.
Perché ISIS resiste a Sirte
Iniziata il 12 maggio scorso, l’operazione “Al-Bunyan Al-Marsous” ha finora deluso le aspettative di quanto speravano in una battaglia lampo a Sirte. I morti invece sono stati oltre 660 e i feriti circa 3mila contro le circa 2mila vittime tra i jihadisti. A influire sul rallentamento dell’offensiva non sono però solo i civili presi in ostaggio. I combattenti di Misurata sono infatti male organizzati e mal pagati, e alla luce di quanto avvenuto a Tripoli nelle scorse settimane, dove è tuttora in corso una lotta per il potere tra Serraj e il premier del deposto Governo di Salvezza Nazionale Khalifa Ghwell, i comandanti starebbero prendendo tempo in attesa di capire a chi dovranno rispondere una volta liberata la città. Verranno ripagati per gli sforzi compiuti, o finiranno per scontrarsi con l’Esercito Nazionale Libico (LNA) Khalifa Haftar? È una domanda che tutti, e non solo loro, si pongono in Libia.
(Sirte, 10 novembre 2016: l’interno di un edificio liberato da ISIS)
Le ultime risposte arrivate dagli Stati Uniti, dove si dovrà attendere la fine di gennaio per l’insediamento del nuovo presidente Donald Trump, non servono a sciogliere questi dubbi. Il 9 novembre, i vertici della missione AFRICOM (United States Africa Command) hanno infatti annunciato la ripresa dei raid aerei su Sirte. Finora in totale i blitz compiuti sono stati 368. I prossimi a decollare potrebbero essere velivoli senza pilota Reaper dalla base italiana di Sigonella, ed elicotteri Super Cobra dalla nave da assalto anfibio USS San Antonio.
“Se ulteriori raid saranno necessari – ha affermato il portavoce del Pentagono Peter Cook – siamo pronti a lanciarli”. Ma obiettivamente è difficile spiegare come questa tattica possa coniugarsi con l’auspicio di non procurare altre vittime tra i civili intrappolati a Sirte. A esprimere molto meglio il senso di questa battaglia è piuttosto Rida Issa, portavoce delle milizie che sostengono Serraj. “Questa non è una battaglia facile perché stiamo combattendo contro un’ideologia radicale secondo la quale la morte è un’aspirazione. Un nemico come questo può essere eliminato definitivamente solo quando tutti i suoi combattenti saranno uccisi. E questo è quello che stiamo facendo. Di sicuro, questa battaglia è andata avanti troppo a lungo, ma questa è la guerra, non una partita di calcio”.
L’accordo tra Mosca e Haftar
All’ombra della battaglia di Sirte, continuano le manovre di quelle potenze straniere che a differenza di Nazioni Unite, Stati Unite ed Europa (Italia compresa) hanno deciso di puntare sul generale Haftar. Al centro del fronte a sostegno del generale della Cirenaica si è ormai posizionata stabilmente la Russia che da un anno, con la mediazione del presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi, ha intensificato i contatti con il governo di Tobruk del premier Abdullah Al Thinni e con i vertici dell’LNA.
Dalle trattative il Cremlino è passato ai fatti lo scorso 8 novembre firmando con l’esecutivo di Tobruk accordi del valore di 4,4 miliardi di dollari, alcuni dei quali firmati prima della caduta di Gheddafi nel 2011, per la manutenzione di aerei e navi militari di fabbricazione russa in possesso dell’LNA.
(Il generale Khalifa Haftar)
Non potendo fornire direttamente armi ad Haftar, poiché è in vigore l’embargo delle Nazioni Unite, Mosca si limiterà per il momento a rimettere in sesto quelle d’epoca sovietica che sono già in dotazione delle forze armate libiche. Ma la presenza da giorni di decine di consiglieri militari russi nelle basi dell’LNA nei territori controllati dalle truppe di Haftar, dimostra che il piano del Cremlino è ben più ambizioso e mira a un consolidamento della sua posizione nello scacchiere nordafricano. Un’area dall’altissimo valore strategico, e non solo per la lotta a ISIS, in cui il peso dell’Occidente – Francia esclusa – è sempre meno rilevante.
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Fonte: http://www.lookoutnews.it/libia-sirte-isis-battaglia-raid-usa/
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